Darwin a Manhattan l’evoluzione di città  che ridisegna la natura

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NEW YORK. Charles Darwin dovette imbarcarsi in un viaggio pluriennale dall’altra parte del mondo, laggiù nelle Galapagos, per partorire la sua teoria dell’evoluzione. Un secolo e mezzo dopo al professor Jason Munshi-South basta infilare i tornelli della metropolitana, linea A, e scendere alla 168esima strada, nel cuore di Harlem, Manhattan. Tu chiamala, se vuoi, evoluzione: dell’evoluzione. L’evoluzione urbana, la selezione naturale che avviene nell’ambiente più innaturale del mondo: la metropoli che non dorme mai.
New York è l’isola delle Galapagos dei giorni nostri: 401 tipologie di piante sparite dal 1624 a oggi, 1.159 specie che sono invece riuscite a sopportare i cambiamenti che l’uomo ha portato in cinque secoli. Questa era la terra su cui splendeva un arcobaleno di 21 tipi di orchidee: oggi scomparse dappertutto salvo essere rivendute dai fioristi come gioielli, dai 70 dollari in su. È il prezzo dell’urbanizzazione: un ambiente come un altro, a cui però gli scienziati hanno cominciato finalmente a guardare con più attenzione.
Sono tre anni, appunto, che Munshi-South sta studiando l’evoluzione dei topolini bianchi di New York. Riuscendo a provare l’evoluzione nel loro Dna. Proprio le osservazioni nell’Highbridge Park, nel nord di Manhattan, hanno fatto scoprire il cambiamento avvenuto a questa popolazione vecchia di dodicimila anni, arrivata dal Canada e dal Messico mentre i ghiacci si ritiravano: topolini che sono solo lontani e più puliti parenti delle pantegane, vero terrore degli abitanti di qui – il rapporto è di 7 topi ogni umano – portate invece, e ti pareva, dai colonizzatori. Perché l’evoluzione risponde sempre a quell’antica legge darwiniana dell’adattamento: e, nella fattispecie, a quel fattore umanamente devastante che si chiama inquinamento.
Prendete il Pcb, cioè il Policlorobifenile che la General Electric ha riversato nell’Hudson per 30 anni, fino a che gli Usa nel 1977 non lo vietassero. Beh, quel veleno può causare deformità  nelle larve dei pesci, fino a determinare uno stravolgimento delle fauci, e quindi metterne a rischio la sopravvivenza. Sorpresa. L’equipe del professor Isaac I. Wirgin ha scoperto adesso che il tomcod, il merluzzo dell’Hudson, è passato attraverso una mutazione del suo gene AHR2, che gli ha così permesso di resistere all’attacco chimico. I ragazzi del dottor James Danoff-Burg, invece, sono saliti su Broadway come fosse la savana. E qui continuano ad andare a caccia di formiche: distinguendo tra quelle autoctone, del posto, e quelle importate dagli europei. Fino all’ultima avvistata, la Crematogaster lineolata, che mai era stata individuata in un habit urbano.
Uccelli, piante, pesci. Ma racconta il New York Times che la biodiversità  non si scatena soltanto nei fiumi e nei parchi di città . Evoluzione è anche quella di un pericoloso batterio, Klebsiella pneumoniae, che purtroppo prolifera negli ospedali: causando polmonite e altri malanni. Il dottor John Quale ha scoperto adesso che il batterio, finora combattuto con un antibiotico chiamato Carbapenem, è diventato resistente, adattandosi appunto all’ambiente ospedaliero.
Non solo. Ormai viaggia persino da clinica in clinica, di paese in paese, individuato ormai nel resto degli Usa e in Europa, dalla Francia alla Grecia.
Ecco perché l’evoluzione di città  ci riguarda da vicino. E del resto: se il battito di una farfalla, come diceva Edward Lorenz, può provocare un uragano dall’altra parte del mondo, cosa provocherà  mai nelle nostre città  il morso di un topo qui a Manhattan?


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