Giappone. Il paese martire dell’atomo ora dice addio alle centrali

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Dal mare arrivò e il mare se lo porterà  via, quell’atomo che ha chiuso la storia del Giappone moderno fra le parentesi di due tragedie senza paragone. Da Hiroshima a Fukushima, dall’agosto del 1945 al marzo del 2011, nessun altro popolo ha pagato un prezzo più alto, e ha estratto profitti più enormi, dall’incontro con quella fissione nucleare che aveva segnato prima la devastazione finale dell’impero, poi la miracolosa rinascita e ora sarà  abbandonata, come il primo ministro Naoto Kan ha ripetuto ieri, lanciando il Giappone verso le energie pulite e rinnovabili.
Non sono soltanto questi 66 anni trascorsi fra l’arrivo dell’Enola Gay e l’onda dello tsunami, che ha dato il colpo mortale ai reattori feriti dal sisma, a raccontare l’eterna verità  dell’arcipelago del “Sol Levante” che uno scrittore giapponese ridefinì dopo il ’45, “Il Sole Fondente”. Tutta la storia del Giappone è la storia di un popolo che dal mare ha tratto la propria forza e insieme la propria vulnerabilità . Se una nazione prodigiosamente frugale e ordinata, capace di sacrifici e abnegazioni spesso suicide per sopravvivere e per prosperare, ha abbracciato quella tecnologia che sbriciolò due delle sue città , la morale è nella troppa fiducia nel proprio destino e nella propria capacità  di controllarlo. Come sempre s’illuse di addomesticare l’oceano.
Quell’evento del 6 agosto 1945, che consumò in un istante 80mila vite e altre 100mila nei mesi successivi, fu letto come una spaventosa, ma indelebile dimostrazione della promessa di potenza e di energia infinita racchiusa nel guscio di “Little Boy”, la prima bomba atomica. Quando, superata la soglia iniziale della ricostruzione elementare negli Anni ’50, i governi giapponesi si ritrovarono di fronte all’eterna condanna del proprio arcipelago povero, «ricco soltanto di gente e di pioggia», come disse lo studioso americano Ezra Vogel, il ricordo indelebile di quella forza sovrumana che stampò ombre umane sul granito, apparve come il genio nella bottiglia. Fu evocato con una passione, un trasporto e un abbandono che pagarono formidabili profitti alle industrie private che costruirono le centrali e che ne sfruttarono l’energia elettrica, supplendo alla totale mancanza di ogni altro combustibile, fino a coprire il 35 per cento del consumo nazionale. Non ci sarebbe stato il sensazionale boom giapponese senza quell’energia sprigionata dalla “bomba” addomesticata. Entro il 2030 l’autosufficienza da atomo avrebbe dovuto raggiungere il 50%, secondo il progetto del governo sempre dominato dal Partito democratico giapponese.
Lo shock della prima grande carestia petrolifera, alla metà  degli Anni ’70, e la scalata furiosa dei prezzi del barile, non fecero che rafforzare questo rapporto di dipendenza dal «drago venuto dal mare», raccontato in dozzine di metafore cinematografiche con mostri e mutanti, che la scienza, la tecnologia, il profitto e l’autorità  amministrativa assicuravano di avere addomesticato. Ma fu proprio in questo naturale, istintivo atteggiamento collettivo della società  e della cultura nipponica che si nascondeva la vendetta del drago. Per mezzo secolo, fino alle atroci menzogne e ai balbettamenti dei responsabili di Fukushima, la società  Tokyo Electric Power Company, l’ormai famigerata Tepco, l’industria nucleare giapponese ha conosciuto più incidenti, ha fatto più vittime, ha causato più danni ambientali di ogni altra nel mondo, anche più, come risulterà  a conti fatti, di Chernobyl.
La ammirevole capacità  nipponica di accettare e rispettare la parola del “sensei”, del saggio, dell’anziano, del leader, aveva offerto alla Tepco e al complesso nuclear-industriale spazi infiniti di menzogna e di occultamento dei rischi. «Tutto era segreto», dirà  Kei Sugaoka, uno degli ingegneri nucleari costretto a lasciare il Giappone perché fin dal 1989 aveva denunciato i pericoli, l’incuria, l’irresponsabilità , in una nazione per altri versi rigorosissima, dove qualsiasi automobile vecchia di appena tre anni deve essere sottoposta a revisioni minuziose per poter circolare. Ma un reattore primitivo e anziano può continuare a bollire affidato soltanto a chi non ha nessun interesse a fermarlo, ai suoi gestori.
L’elenco delle catastrofi e delle quasi catastrofi coperte dalla Tepco con la complicità  del governo è lunghissimo. Guasti e incidenti ai reattori di Monju, Tokaimura, Tsuruga, Kashiwazaki, prima del finale wagneriano a Fukushima, furono puntualmente minimizzati e soffocati dalla Tepco, in un clima crescente di deregulation, di lasciar fare, che scandalizzava anche l’agenzia per il controllo nucleare degli Stati Uniti, la Nrc: «Sarebbe ora che le autorità  giapponesi rivedessero le procedure di sorveglianza», disse il direttore. Ma non fu fatto.
E ora la decisione del premier, e del partito storicamente pro-nuclearista, di scegliere la strada difficile delle energie rinnovabili ed ecologicamente sicure, è la prova che il magnifico peccato di superbia e di vendetta contro la storia compiuto dopo Hiroshima, per trasformare una sciagura in un trionfo, ha chiesto la penitenza. Persino il Giappone deve ammettere quella verità  che amaramente molti hanno ammesso: che il drago, l’atomo, non è né buono né cattivo, è quello che è. Sono gli uomini superbi e disonesti che fingono di saperlo tenere al guinzaglio a scatenarlo.


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