Il dramma del superpentito Mannoia tenta il suicidio “Lo Stato ci ha abbandonati”

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PALERMO – È stato uno dei mafiosi più temuti di Cosa nostra. E poi uno dei pentiti più importanti della lotta alla mafia, grazie al giudice Giovanni Falcone. Oggi, Francesco Marino Mannoia si vede solo e disperato: alcuni giorni fa, ha tentato di suicidarsi, ingerendo un cocktail di farmaci, ma sua moglie è riuscita a salvarlo in extremis, portandolo in ospedale. Era già  accaduto un’altra volta, un mese fa. E qualche giorno dopo Mannoia aveva affidato il suo sfogo al procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che era andato a interrogarlo per una vecchia inchiesta: «Sono deluso, amareggiato, dopo tutto quello che ho fatto per la lotta alla mafia, dal 1989».
Mannoia, che oggi ha 60 anni, ha vissuto a lungo sotto protezione negli Stati Uniti. Poi, ad aprile, ha deciso di tornare in Italia, perché la moglie e i due figli non si sono mai integrati oltreoceano. Ma è stato l’inizio di altri problemi: l’ex chimico delle cosche, grande esperto nella raffinazione della cocaina, si è ritrovato senza una casa, e oggi è ancora più preoccupato per il futuro dei suoi due figli.
Oggi, suonano come una drammatica profezia le prima parole di Mannoia che Falcone mise a verbale, l’8 ottobre 1989: «Il mio pentimento è un gesto di fiducia nelle istituzioni, anche se non noto un vero impegno dello Stato nella lotta alla mafia». Due mesi dopo, Cosa nostra uccise la madre, la sorella e la zia del neo pentito. Mannoia disse a Falcone: «Non mi fermeranno, voglio cambiare vita». Ma dei rapporti fra mafia e politica parlò solo dopo la morte di Falcone. Svelò che nel 1980 Giulio Andreotti aveva incontrato a Palermo il boss Stefano Bontade. E la Cassazione gli ha creduto (anche se l’accusa è stata dichiarata prescritta). Così Mannoia, che è stato sempre assistito dall’avvocato Carlo Fabbri, è diventato il pentito più attendibile della storia della lotta alla mafia. Ha già  scontato una condanna a 17 anni, oggi è un uomo libero.
Ma questo è un momento difficile per i collaboratori: qualcuno è stato anche sfrattato da casa, perché lo Stato non ha i soldi per pagare l’affitto. Tutta colpa dei tagli al servizio di protezione: nel 2006, c’erano 70 milioni per lo strumento principale dell’Antimafia, i collaboratori. Oggi, i fondi per i pentiti e i loro legali sono stati dimezzati. Ecco perché alcuni collaboratori hanno già  iniziato una singola protesta, denunciando nelle aule di tribunale le carenze del sistema di protezione.
Venerdì, un pentito si è impiccato. Giuseppe Di Maio, 33 anni, ex esattore del pizzo della cosca palermitana della Guadagna, viveva un personale dramma della solitudine dopo essere stato abbandonato dalla moglie, che non aveva condiviso la sua scelta. Adesso, un altro pentito di mafia, Manuel Pasta, accusa: «Lo Stato non fornisce assistenza in nulla ai collaboratori, limitandosi allo stretto indispensabile, che si esprime in un tetto, un sussidio quando arriva e le spese per gli impegni di giustizia. Si poteva evitare quel suicidio – scrive Pasta, anche lui ex esattore del pizzo, in una lettera aperta – Di Maio aveva già  tentato di togliersi la vita in cella, nel momento in cui è uscito bisognava dargli assistenza psicologica». Pasta esprime senza mezzi termini il disagio dei collaboratori: «Forse, c’è una volontà  superiore affinché questo fenomeno del pentitismo sia disincentivato», dice. «Ci sono tanti Di Maio che vanno aiutati», è il suo appello: «Il nucleo di protezione non riesce ad affrontare l’enorme lavoro con un numero esiguo di personale, e spesso non c’è nemmeno un protocollo da seguire, se non quello dell’anima».


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