Ma serve davvero questa Tav?

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Gli attori in campo lo recitano, e lo vivono sulla loro pelle, come uno scontro epocale. “Opera fondamentale e irrinunciabile per il Piemonte e l’Italia” secondo il neosindaco di Torino Piero Fassino. “Ennesimo scempio a una valle già  martoriata da autostrada, trafori e una centrale idroelettrica” per i valligiani anti-tav. “La madre di tutte le battaglie” per i ribelli di Askatasuna. Simile capitale importanza sembra comprovarla il crescente numero di feriti a ogni attacco: quello delle forze dell’ordine al presidio alla Maddalena il 27 giugno e quello dei No Tav al cantiere appena aperto il 3 luglio.

Ma è davvero così, dopo sei anni di trattative, tavoli, commissioni congiunte? Sono sul serio in gioco, con quel che resta della Tav, da una parte i destini economici e logistici del nord Italia, e dall’altra il futuro di ambiente, paesaggio, salute e speranza in Val di Susa? O una serie di automatismi psicologici, finanziari e burocratici stanno invece riproducendo atto dopo atto lo stesso spettacolo in barba ai numeri e alla contabilizzazione di costi e benefici, inclusi quelli sociali?

Un progetto sotto accusa.
Quello originario era letteralmente insensato. Piaccia o no agli aedi del progresso che cammina con l’avanzare delle rotaie manco fosse il vecchio West, la guerriglia del 2005 e l’alzata di scudi di sindaci e amministratori hanno impedito che si buttassero miliardi di euro in un’opera concepita male, giacché il tragitto fra Torino e lo scalo merci di Orbassano disegnava un tortuoso andirivieni con enorme spreco nei tempi di percorrenza, e pericoloso per la salute: oltre un milione di metri cubi di rocce amiantifere da asportare in cento milioni di sacchetti di plastica in discariche provvisorie da bagnare con milioni di litri di acqua, roba da scienziato pazzo dei fumetti. Bene, ma il nuovo progetto? 
Frutto di sei anni di limature e compromessi gestiti dall’Osservatorio sulla Torino-Lione, ridisegna un percorso meno invasivo sulla sponda destra anziché sinistra della Dora Riparia, risolve la questione dello scalo di Orbassano, concede un contentino a Susa con una stazione ferroviaria internazionale: anche se ci faranno sosta al massimo due o tre Tgv al giorno e qualche treno nel weekend per i turisti inglesi low cost dall’aeroporto di Torino Caselle. La tratta centrale sottoterra è rinviata a dopo il 2035. Sotto le Alpi avremo un nuovo buco che, dice Mario Virano presidente dell’Osservatorio, “sarà  in linea con gli standard attuali del trasporto merci in treni affidabili e convenienti, a quota pianura cioè sui 250-300 metri e con basso dislivello”: l’attuale traforo del Fréjus lo volle Cavour, fu inaugurato nel 1871, dopo cinque anni di lavori hanno appena finito di abbassare di 50 centimetri il piano rotaia in una direzione perché nessun container ci poteva transitare. Ma appena dopo Susa ci si terrà  la linea attuale, un rosario di treni in mezzo ai paesi. Un disastro, a guardare le proiezioni sul futuro traffico merci allegate al progetto. Ma sono attendibili? Pare di no.

Sempre meno traffico.
Il progetto parte dal presupposto che ci sarà  un incremento continuo degli interscambi e del traffico merci sull’asse Italia-Francia. Ipotesi confutata da diversi economisti e dalla realtà  dei numeri. Via ferrovia del Fréjus sono passate nel 2009 (ultimo dato disponibile) merci per 2,4 milioni di tonnellate. L’anno prima erano state 4,6 milioni, nel 2000 addirittura 8,6 milioni. Per i lavori, certo, ma il calo c’è stato anche nel trasporto su gomma. E negli ultimi due anni ha riguardato allo stesso modo Svizzera e Austria. La Tav servirebbe a trasportare prodotti per o da Francia, Spagna e Portogallo, mercati in fase di stallo, “dove import ed export sono arrivati quasi alla saturazione”, dice Francesco Ramella, esperto di trasporti e autore di vari articoli su Lavoce.info. Ben diverso, aggiunge, sarebbe se il tracciato servisse per arrivare più velocemente in Germania, nostro partner commerciale in forma smagliante, o ai porti di Rotterdam, Amburgo e Anversa. Cosa c’entrano i tre porti? C’entrano eccome: da lì passano le merci da e verso la Cina e gli altri mercati emergenti, che privilegiano la Svizzera o il Brennero se devono scaricare in Italia. L’autista del Tir, arrivato a Torino o a Lione, deve avere incentivi a scegliere il treno o disincentivi a usare l’autostrada. Gli svizzeri non fanno complimenti: in autostrada esigono un superpedaggio in base a chilometri, peso e inquinamento del veicolo: 250-300 euro a volta.
Più costi, meno benefici.
Dunque, per il camionista è difficile individuare benefici. Per i passeggeri, poche migliaia all’anno, che da Milano vanno a Parigi in treno, il guadagno è di un’ora; per chi soffre di aviofobia, visto che l’aereo è più comodo e veloce. L’economista francese Rémy Prud’homme ha tentato un’analisi del rapporto costi-benefici dell’opera. Sconfortante conclusione: “Non si conoscono esempi di collegamenti ferroviari capaci di catturare una quota significativa di traffico di merci prima su strada, neanche in caso di divieto ai tir di utilizzare tunnel autostradali”, e per tutti i 15 anni previsti per i lavori i costi saranno comunque superiori ai benefici. E col nuovo progetto che rinvia di due decenni la sezione centrale? “In via astratta, il rapporto potrebbe cambiare”, risponde Andrea Boitani, ordinario di Economia politica alla Cattolica di Milano, “ma non è questo il punto. Semmai c’è da chiedersi: perché mettere in cantiere un’opera da 15 miliardi di euro (che diventeranno almeno 20) perché sennò perderemmo il 30 per cento di 8 miliardi, cioè 2,4 miliardi, quanto l’Unione europea stanzia per la tratta internazionale?” 

Replica Virano che è un ottimo investimento spendere 2,8 miliardi (da parte italiana, se si riuscirà  a ricontrattare le quote con la Francia, altrimenti 3,5) “per avere nel 2023 il nuovo tunnel in pianura, che dimezza i tempi di percorrenza da Torino a Chambéry, raddoppia il carico massimo di merci trasportabili su un treno, realizza il salto di competitività “. E poi ci sarebbero le ricadute: “Cento posti di lavoro per quattro anni per il tunnel esplorativo dalla Maddalena, da 3 a 5 mila per dieci anni dal 2013 quando si comincerà  a lavorare sulla galleria principale, il 30 per cento a imprese e lavoratori del Piemonte. Più l’indotto”. Intende appalti locali e affari per gli albergatori e i ristoratori vicino ai cantieri dove, per impegno scritto nel progetto, dormiranno e mangeranno tecnici e manovali. Nell’attesa, a fare indotto sono i 2 mila poliziotti ospitati a Bardonecchia pronti a un’estate calda. 

Soldi per il Piemonte, insomma. Il che solleva un’altra obiezione. “Per accessibilità  e collegamenti nazionali e internazionali”, attacca Boitani citando un’indagine di Giovanna Messina per la Banca d’Italia, “il Piemonte è già  la seconda regione meglio servita d’Italia, dopo la Valle d’Aosta, con la Lombardia al decimo posto. Perché spendere lì quei miliardi anziché in Toscana o in Friuli o in Basilicata?”. E perché, a sentire di nuovo Ramella, bucare il Moncenisio anziché costruire magari, allo stesso costo, cinquanta chilometri di metrò nelle principali città  italiane?
E comunque: perché non parlare di tutto questo invece che dei black-bloc?


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