Bengasi come Srebrenica? Dove e perché Adriano Sofri sbaglia

Loading

Dietro questo slogan, però, troppo spesso si nascondono altre ingiustizie, altri massacri. Adriano Sofri, in un editoriale di sostegno all’intervento della Nato e degli altri alleati in Libia, ha scritto martedì scorso su la Repubblica «che cosa sarebbe accaduto della popolazione indifesa di una grande città  come Bengasi ? Non si sarebbe parlato di Srebrenica se Srebrenica fosse stata prevenuta». Già , ma il problema sta nelle forme della prevenzione. A Srebrenica c’era un esiguo contingente di olandesi, con armi leggere, assolutamente inadeguato per affrontare l’esercito serbo bosniaco. L’enclave, di fatto, non era difesa. Nessuno era interessato alla sorte dei bosniaci, e i macellai aspettavano solo il segnale di via libera, puntualmente arrivato alla fine di giugno di quella tragica estate. Se avesse avuto di fronte un esercito di caschi blu, Mladic non avrebbe potuto attaccare. Il fatto che allora non ci sia stata interposizione, però, non può servire oggi per giustificare la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali. Bisognerebbe piuttosto discutere di come dotarsi di strumenti efficaci per il mantenimento della pace.
Guerra e interposizione, guerra e mantenimento della pace sono categorie differenti. Vale la pena ricordarlo. Sofri scrive che «la contraddizione è largamente inevitabile nel sistema di relazioni internazionali». È vero. Questa però vale come constatazione, non come programma. Eccessive iniezioni di realismo portano a perdere la bussola. In una situazione di conflitto aperto, la comunità  internazionale deve intervenire a protezione dei civili. Ma l’intervento non può che avvenire per il mantenimento della pace, non per creare altre vittime e altri lutti. Dopo Srebrenica, invece, il massacro dei bosniaci è stato utilizzato per giustificare nuove guerre, condotte da autoproclamate «polizie internazionali». Gli interventi di queste forze (1999 Kosovo, 2001 Afghanistan, 2003 seconda guerra del Golfo, 2011 guerra di Libia) hanno però lasciato alle loro spalle, oltre ad una lunga scia di morti, una lunga scia di problemi irrisolti. Non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Dopo l’intervento Nato in Kosovo, i serbi sono dovuti fuggire, come prima fuggivano gli albanesi. La crisi di quest’estate a Mitrovica nord, gli scontri a Jarinje e Brnjak, mostrano che, dieci anni dopo, la situazione è tutt’altro che risolta. Un conto è mettersi in mezzo, altro è schierarsi con una parte contro l’altra. Dal punto di vista delle possibilità  reali di elaborazione di un conflitto, di costruzione di una società  accogliente per le sue diverse componenti, cambia molto. Nessuno piange per la scomparsa di Gheddafi dalla scena politica. Ma su quali basi si fonda la nuova Libia? In questi mesi, purtroppo, non abbiamo assistito alla rappresentazione della giustizia internazionale, della protezione dei diritti umani. Se le navi e gli aerei della Nato fossero state nel Mediterraneo per difendere i diritti umani, non avrebbero lasciato morire centinaia di profughi sulle loro barche, violando oscenamente il diritto del mare oltre che le più elementari norme del diritto internazionale umanitario, secondo quanto denunciato dai pochi sopravvissuti, da questo giornale e dall’inchiesta del Guardian. La nuova Libia, purtroppo, nasce sulle stragi dei migranti, così come 15 anni fa la Bosnia Erzegovina nasceva sulle fosse comuni. La comunità  internazionale ha fallito in entrambi i casi. Discutiamo di come creare meccanismi efficaci di interposizione, torniamo a chiedere una Organizzazione delle Nazioni Unite che sia coerente con il suo patto fondativo. Il feticcio della guerra ha già  troppi adepti.
* Osservatorio Balcani e Caucaso


Related Articles

Non solo in Siria. Un mondo di bombe (anche italiane) che nessuno vede

Loading

Ogni giorno esplodono altre centinaia di bombe in un altrove che rumore, non ne fa. Sono le bombe silenziose di guerre «secondarie», di stragi che non bucano il video

L’Europa vola sul nEUROn

Loading

Mentre l’euro continua a perdere quota rischiando di precipitare, decolla il nEUROn. Non è un euro di nuovo corso. È un velivolo non pilotato da combattimento di nuovo tipo. Gli attuali droni, come il Predatore statunitense, vengono pilotati a distanza da operatori seduti a una consolle, in una base negli Usa a oltre 10mila km di distanza: attraverso videocamere e sensori all’infrarosso, individuano l’obiettivo (una casa, un gruppo di persone, un’auto in movimento), colpendolo con missili «Fuoco dell’inferno».

Le fazioni ribelli litigano sul corpo di Gheddafi

Loading

Contrasti sull’autopsia. I vincitori: «Elezioni entro 8 mesi»

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment