Brega, battaglia per la città  del petrolio i ribelli: “Ma il nemico ormai è in fuga”

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Il più antico fronte di questa guerra ormai vicina all’epilogo si perde oltre le dune che affacciano sul Mediterraneo. Dietro quei dossi che sembrano di marzapane, sono ancora appostate le truppe del Colonnello, o forse del suo fantasma. Il cielo è di un biancore malaticcio, così come la sabbia del deserto.
Nera è soltanto la strada, diritta come una fucilata, che all’orizzonte però, per il troppo caldo, si scioglie in un lago immaginario. Ogni tanto da terra s’alza una colonna di fumo verso il cielo, là  dove s’impatta uno dei razzi Grad che i lealisti, si direbbe quasi svogliatamente, continuano a scagliare contro le linee degli insorti, 240 chilometri a sud di Bengasi. «Devono averne ancora migliaia, perché ormai li sparano ad occhi chiusi», dice Khaled, 34 anni, capitano del nuovissimo esercito della Libia liberata.
Quante volte è stato preso, perso e poi riconquistato il fronte di Brega? Qui, sei mesi fa, le sconclusionate torme di shabab, i giovani combattenti della Cirenaica, armate di vecchi kalashnikov e spinte al martirio dal desiderio di libertà , vinsero la loro prima battaglia. Per gli insorti significò poter materializzare i loro sogni rivoluzionari, perché disponevano finalmente del carburante per avanzare verso Tripoli, visto che al porto di Brega arrivava per ripartire verso l’Europa buona parte del petrolio estratto nel deserto libico. Qui, guarda caso, cominciò la controffensiva di Gheddafi.
Sorride, il capitano Khaled, convinto che anche tra queste dune ormai devastate dai missili nemici la guerra contro il dittatore sia quasi finita. «Stanno scappando», sostiene con prodigioso ottimismo, mentre un razzo ci cade così vicino da coprire le sue ultime parole. «Si ritirano verso Ovest, nelle caserme di Sirte, città  natale e roccaforte del Colonnello», aggiunge poi, lisciandosi la barba ben curata. Basta osservarlo, diritto e fiero come un soldatino di piombo, con l’uniforme appena stirata e gli stivali lucidati, per accorgersi che i tempi sono cambiati. E’ vero, tra i commilitoni di Khaled vedi ancora qualche shabab in jeans e t-shirt, ma sono pochi, e il loro ruolo è stato azzerato tanto da farli passare oggi per le mascotte della compagnia, la quale è invece composta da combattenti d’aspetto marziale che imbracciano mitragliatori scintillanti. Soldati questi, tutti addestrati dagli istruttori militari inviati da Roma, Londra e Washington.
«Stamattina abbiamo chiesto alle forze fedeli al Colonnello di deporre le armi, e loro ci hanno ascoltato», dice ancora Khaled. E questi razzi?, gli chiediamo, indicando le ultime colonne di fumo che si stagliano all’orizzonte. «Sparano per coprirsi la ritirata», risponde ridendo il capitano. «Sono armi che hanno una gittata di almeno 40 chilometri, ed è da quella distanza che le fanno esplodere». Poco dopo, tuttavia, da Bengasi il portavoce militare degli insorti, colonnello Ahmed Omar Bani, dichiarerà  che la situazione non è cambiata sulla linea del fronte di Brega, e che si continua a combattere.
Dall’ospedale centrale di Bengasi confermano che è proprio su questo fronte orientale, e che si estende dalla città  di Ajabija all’altro porto petrolifero di Ras Lanuf, che la guerra civile libica ha mietuto più vittime: oltre millecinquecento, più che nel luogo martire della rivoluzione, Misurata. E’ tra queste sabbie che s’è combattuto più a lungo e con maggiore intensità . Nulla di strano, dunque, se le parti continuano la battaglia, fino alla resa definitiva di Gheddafi e forse oltre.
In serata, Mohamed Zawiwa, un altro portavoce del governo di Bengasi, dichiara, come gli insorti avevano già  fatto due giorni fa, salvo poi doversi smentire, che Brega è interamente sotto il loro controllo e che le truppe lealiste sono in fuga. Anche se fosse vero, gli insorti dovranno procedere con estrema cautela tra le infrastrutture petrolifere, perché è verosimile che siano state infarcite di mine. «Finché erano sue Gheddafi le ha risparmiate. Una volta perdute, deve aver pensato a come meglio sabotarle», dice Khaled.
I primi di marzo, quando finì nelle mani degli shabab, Brega era un piccolo paradiso petrolifero con grosse cisterne ed eleganti villette per le maestranze straniere, in cui la sola bruttura consisteva in una gigantografia del Colonnello che i ragazzi della rivoluzione avevano imbrattato di vernice rossa. Qui, vedemmo i primi mercenari stranieri catturati dalle forze ribelli: un gruppetto di giovanissimi e spaventatissimi ciadiani che aveva la notte prima ucciso e stuprato nelle case di beduini attorno al porto.
Dopo sei mesi di combattimenti è difficile riconoscere quei luoghi. La carreggiata è ovunque puntellata da carri armati accartocciati dai razzi. Non c’è un edificio che non abbia almeno un buco nel muro della dimensione di un cocomero o una parete distrutta o una finestra incendiata. Tutto è poi sommerso dalla spazzatura di guerra: bossoli di ogni dimensione, casse che una volta contenevano munizioni, oceani di bottiglie vuote, auto senza copertoni, coperte sudice, caricatori con cartucce inesplose.
Domani, l’esercito degli insorti, o come andrebbe piuttosto chiamato delle forze democratiche, comincerà  la sua marcia verso Sirte. Per frenare nuove offensive, i generali gheddafiani ricorrono a sporchi espedienti: oltre alle mine, hanno riempito le loro trincee di bambini. Espedienti da guerra civile, o guerra tribale. Tra fazioni, clan avversi. O più semplicemente tra due schieramenti che si sparano contro da sei mesi e che smetteranno solo quando il nemico alzerà  la bandiera bianca.


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