LA LEZIONE DI BUFFETT

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Ora, a 81 anni, l’Oracolo di Omaha recidiva. In un intervento sul New York Times di domenica, Buffett fa notare che lui versa all’erario il 17,4% sul suo reddito annuo (di 40 milioni di dollari) da investimenti finanziari, mentre la sua segretaria e gli impiegati del suo ufficio versano in media il 36% del loro reddito da lavoro. Buffett propone perciò di ridurre di due punti percentuali il prelievo sui redditi medio-bassi e d’inasprire le tasse sulle 236.883 famiglie Usa con un reddito superiore al milione di dollari annuo, e di inasprire ancor più la tassazione per le 8.274 famiglie con reddito oltre i 10 milioni di dollari.
Certo, quest’uscita va presa con cautela: da un lato, esprime la furibonda lotta intestina in corso tra i grandi capitalisti Usa: Buffett sembra avercela con i fratelli Koch (di Wichita, Kansas) che hanno creato e finanziano il Tea Party. Poi, Buffett dà  una sberla ai politicanti che leccano la mano ai miliardari (parla di un Congresso billionaire friendly). Infine è noto che, col suo patrimonio di 47 miliardi di dollari, Buffett è stato nel 2008 il più facoltoso contribuente alla campagna presidenziale di Barack Obama.
Ma Buffett pone un problema serissimo. Nel 2008 la grande crisi dei mutui subprime fu originata dall’effetto cumulato di voler mantenere alta la domanda pur comprimendo i salari: compito impossibile, a meno di permettere alla gente d’indebitarsi oltre misura: ed è quel che successe. Nel 2011 la vicenda dei «debiti sovrani» costituisce l’equivalente pubblico di quel che i mutui subprime furono per l’economia privata.
Da decenni «meno tasse» è la formula magica per sfondare in politica; dire «più tasse» è puro suicidio. Ma come si fa a mantenere i servizi essenziali che uno stato capitalista occidentale deve garantire, quando le entrate fiscali calano? Ebbene lo stato s’indebita. Badate bene, ci sono due modi di ridurre le tasse: ridurre le aliquote, oppure consentire più evasione fiscale. Non è un caso che i governi più indebitati siano quelli a evasione dilagante (Italia, Grecia, Portogallo), o con una legislazione fiscale più favorevole ai ricchi (Irlanda, Stati uniti).
Ora, sia per l’economia privata che per quella pubblica, i governi stanno facendo di tutto per ammazzare il paziente. Come spiega un giorno sì e l’altro pure il Nobel per l’economia Paul Krugman, non può esserci ripresa se non cresce la domanda che però può crescere solo se aumentano o i salari o i posti di lavoro (o ambedue). Nello stesso modo, i debiti sovrani non possono essere sanati solo tagliando le spese, perché ridurre i dipendenti pubblici comprime ancor più la domanda e riduce il gettito fiscale. L’unico modo per uscire dalla spirale dei debiti sovrani è agire sulle entrate, cioè sulle imposte sui ceti privilegiati. Altrimenti l’allarme sul debito è puro espediente retorico. E lo sapeva bene George Bush padre: quando gli spiegarono la reaganomics (meno tasse per stimolare l’economia) sbottò: «Ma questa è economia voudou !» La diagnosi è sempre valida. Anche per la manovra che sta varando il governo Berlusconi.


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