La “bionda” in enoteca il miracolo italiano della birra fai-da-te

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L’ITALIA è diventata in pochi anni un punto di riferimento mondiale per quanto riguarda la birra artigianale. In totale sfioriamo i 400 birrifici distribuiti in quasi ogni regione, cifra che sarà  tranquillamente raggiunta entro fine anno se si terrà  il ritmo di crescita degli ultimi tempi. Si pensi che negli Stati Uniti (dove il fenomeno è esploso a metà  anni ’70) oggi si contano circa 1700 “craft breweries”.
Siamo quindi entrati tra le Nazioni (Usa, Germania e Inghilterra) con i più alti numeri di birrifici artigianali in rapporto alla popolazione. Questo spiega perché il mondo degli appassionati guardi all’Italia con grande interesse e simpatia, a una terra dove fino a metà  anni ‘90 dire birra significava soltanto riferirsi alla classica “bionda” leggera, amarognola, da bere ghiacciata d’estate.
Ora invece abbiamo 3.000 ristoranti che propongono una carta delle birre, un settore che impiega quasi 6.000 addetti diretti alle produzioni e un giro d’affari complessivo che comincia a diventare importante, rosicchiando piccole quote (si stima il 2%) a quello industriale. Nel 1996 pochi pionieri italiani hanno iniziato a cimentarsi nella produzione di birre nuove, complesse e vive, spesso utilizzando prodotti del territorio per costruire qualcosa che, lo possiamo dire, in 15 anni ha cambiato volto al mondo brassicolo. Il fenomeno delle birre artigianali è ormai planetario, ma qui da noi è successo qualcosa che non ha eguali altrove, almeno considerando la velocità  con cui si è sviluppato, la diversità  e la qualità  che ha saputo produrre.
Come sempre, quando si parla d’identità , la diversità  si rivela una parola chiave: le birre artigianali italiane utilizzano quasi tutte le tecniche brassicole disponibili, spesso importate da altri Paesi con più tradizione, ma senza rinunciare a un certo grado di innovazione. Si servono di prodotti del territorio, come le castagne, la frutta autoctona, le erbe spontanee, cereali di antiche varietà  e molto altro, senza limite alla fantasia. Per capire la differenza rispetto agli altri prodotti in bottiglia però c’è solo un criterio principale: la birra artigianale è una cosa viva, cioè non è pastorizzata e non è microfiltrata. Sono processi che aiutano a stabilizzare il prodotto se si sale molto nel numero di ettolitri prodotti, ma ne sacrificano l’evoluzione e la complessità . Non bisogna però commettere l’errore di creare una contrapposizione con i gusti un po’ più standardizzati della birra industriale: entrambi i tipi hanno dignità  e sono in grado di fare qualità . Sono semplicemente due cose diverse, che richiedono consumi differenti, e come tali vanno giudicate indipendentemente.
I nostri piccoli produttori sono stati molto bravi a caratterizzare le loro birre in senso locale, hanno capito che la loro partita si doveva giocare su questo fronte: così sono finiti nelle enoteche e nei negozi specializzati di tutto il mondo. Hanno mutuato un approccio che si ha col vino per un settore in cui negli anni ‘90 era quasi impensabile parlare di degustazioni, di abbinamenti con i cibi, immaginarsi la varietà  di gusti che oggi sanno proporre. Tutti insieme hanno dato vita a una delle storie gastronomiche italiane più belle degli ultimi anni.
Al di là  dei compiacimenti, ora però bisogna saper disegnare il futuro, a partire dalle due parole che si sono rivelate vincenti: identità  e diversità . Dei circa 400 piccoli birrifici italiani, soprattutto quelli nati negli ultimi anni, molti sono piuttosto fragili dal punto di vista imprenditoriale, rischiano. È un mondo fatto in larga parte di appassionati, magari bravissimi a fare la birra ma un po’ meno avveduti sotto il profilo economico. Il successo di questa storia poi fa sì che inizino a insinuarsi tra di loro grossi imprenditori che hanno fiutato l’affare, che mettono sul mercato ingenti quantità  di prodotti più omologati, anche buoni, ma che si rifanno al modello industriale. Questo genera confusione, concorrenza sleale, rischia di rovinare la storia. Bisogna dunque creare le condizioni per una sostenibilità  completa, economica ma anche nel rispetto della diversità  e dei legami con il territorio; comunicare in modo chiaro che cos’è la birra artigianale e fare capire ai consumatori le differenze. «Siamo in una fase paragonabile a quella delle bolle speculative finanziarie, stiamo raggiungendo il limite di sostenibilità  e il rischio è che se non si mettono ora le basi giuste nei prossimi anni la cosa potrebbe esploderci tra le mani» dice Teo Musso di “Le Baladin” di Piozzo (Cuneo), uno degli iniziatori di questo movimento, un leader e punto di riferimento per i birrai artigianali, tra quelli che hanno mietuto più successi.
Governo del limite: ecco di che cosa ha bisogno questo piccolo miracolo italiano. La soluzione potrebbe essere quella di andare sempre di più nella direzione di una birra “locale”, anche “agricola”. Il malto oggi è prodotto in Italia in quantità  non sufficienti a soddisfare la richiesta di un settore così in espansione, mentre il luppolo non esiste, qui non si è mai coltivato. Ma non è una cosa impossibile: Teo Musso da tre anni conduce esperimenti ed è quasi pronto a uscire sul mercato con una birra completamente italiana in tutti i suoi ingredienti. Il luppolo, tra l’altro, sta rischiando di diventare un fattore di omologazione, come avvenne per il vino dei piccoli produttori e la moda delle barriques negli anni ‘90. Oggi si sta diffondendo un largo uso di luppoli americani molto caratterizzanti: è soltanto una moda, ma può nuocere alla diversità . Un ancoraggio locale almeno per la maggior parte degli ingredienti potrebbe essere una buona garanzia per il futuro del settore: è necessario avviare una riflessione. E qui entra in gioco l’etichettatura: anche la legge dovrà  fare la sua parte. Per esempio oggi non è nemmeno consentita la dicitura “birra artigianale”, perché una disposizione del 1962 lo vieta. Allora mettere mano a questa legge che ha quasi 50 anni, scritta quando la realtà  dei piccoli birrifici non era neanche immaginabile, sarebbe buona cosa. È necessario stabilire le regole per cui si possa distinguere il prodotto veramente artigianale, senza discriminare il resto. La paura del legislatore è che la parola “artigianale” possa dare una connotazione positiva ma ingannevole in termini di qualità : è pur vero che ci sono anche birre artigianali non buone, ma è giunto il momento di dare degli strumenti credibili ai consumatori, perché tra qualche anno potrebbe essere troppo tardi. La legge va aggiornata per dare pari dignità  a tutti, per poter riprendere con cognizione di causa quel famoso slogan pubblicitario “Birra, e sai cosa bevi” e dare una concreta prospettiva a questi ragazzi (in gran parte è un movimento di giovani) che con passione e ingegno hanno costruito una cosa preziosa per il nostro Paese, che davvero non merita di rovinarsi.


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