Libia, un piccolo bottino per appetiti insaziabili

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E dire che le notizie economiche erano piuttosto deprimenti. L’Ocse segnalava che nel secondo trimestre 2011 il Pil dei 30 paesi più industrializzati – una fetta maggioritaria della produzione globale – è cresciuto appena dello 0,2%, contro il +0,3% dei primi tre mesi. È il quarto trimestre consecutivo di rallentamento della crescita, il più drastico; un anno di frenata che non preannuncia «rimbalzi» a breve. Deprimente.
Ma basta scorrere la lista dei titoli in rialzo per capire. Gli energetici volavano (Eni +6%) sull’onda dei contratti petroliferi (e del gas) che si potranno firmare con chi dovrà  dire «grazie» per esser stato portato al potere a suon di bombardamenti. Le imprese specializzate in infrastrutture (Ansaldo +5%) sanno che potranno fare altrettanto per ricostruire un paese distrutto, ma che può pagare cash, magari in barili sonanti. Crescevano anche le telecomunicazioni, ora che è stato messo nell’angolo il «cattivone» che era riuscito a dotare l’Africa di proprio satellite per la telefonia, smettendo così di pagare ai francesi un prezzo abnorme. Saliva persino Finmeccanica, «certa che saranno mantenuti i contratti in essere», ma un po’ meno (+1,38) perché saranno le armi francesi e inglesi a fare la parte del leone nel prossimo, «riorganizzando», esercito libico.
È il tema vero. Nella partita della «ricostruzione» e dei contratti l’Italia è collocata in una fascia periferica. prima vengono, certamente, Francia e Gran Bretagna, che hanno volutol’intervento fino al punto di «pirgare» gli Stati uniti e l’Onu. Poi ci saranno le petromonarchie del Golfo, finalmente libere da «cane matto», sponsor fin dal primo giorno dei «rivelli di Bengasi» (al Qatar è andata la prima nave che portava greggio libico). Anche per questo, nel pomeriggio, i guadagni generali andavano sgonfiandosi, ma non solo in Italia. La preda libica, in fondo, non può bastare per tutti gli avvoltoi che svolazzano su questo cielo.
La nostra, in fondo, è una borsa periferica. Molto «speculativa», perché dominata dai titoli bancari, assicurativi, «a partecipazione statale». Le altre reagivano – male – alle pessime notizie dagli Usa. Come l’aumento dei mutui immobiliari non rispettati (segno di crisi reddituale, tra licenziamenti e impossibilità  di trovare nuovo lavoro all’altezza del primo). Ma soprattutto davanti alla gelata sparsa sulle speranze di un quantitative easing 3. Una spiegazione è d’obbligo. Venerdì prossimo, a Jackson Hole, si vedranno i presidenti delle banche centrali d’Occidente. L’anno scorso, in quel luogo, Ben bernanke – presidente della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati uniti – annunciò una fase di quantitive easing 2. ovvero una seconda ondata di finanziamenti pubblici del sistema finanziario privato.
Sfortuna vuole che proprio ieri siano state pubblicate le quantità  delle prime «due fasi»: 1.200 miliardi di dollari (l’8% del Pil statunitense). Morgan Stanley – così prodiga di studi e «consigli» ai governi – ha ricevuto 107,3 miliardi; Citigroup (osceno insieme di interessi Usa e sauditi) 99,5, Bank of America (basta la parola) 91,4. Ma anche le anglosassoni europee non possono lamentarsi: Royal Bank of Scotland 84,5 e la svizzera Ubs 77,2. Risulta da uno studio del Fmi – dunque «imparziale» – che «alcune delle banche abbiano usato i fondi della Fed non per evitare il fallimento ma per massimizzare i profitti». Se vi dicono che dovete andare in pensione dopo la morte, questo è il motivo.


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