Se i potenti della terra perdono il loro carisma

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Finché non sarà  finito, questo 2011 sarà  un pericolo per i leader del mondo, sia per quelli di paesi democratici sia per tiranni e cacicchi della più varia tipologia. Forse perché è indicato da un numero primo, l’anno in corso sta infatti portando iella a una quantità  di capi troppo grande perché si tratti di un fenomeno occasionale. Sono caduti alcuni tiranni medio-orientali (Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto) ma la lista sembra ancora aperta (vedi Abdullah Saleh in Yemen e Hassad in Siria). Al tempo stesso non navigano in buone acque diversi capi occidentali: Obama vacilla; Cameron deve sbrigarsela, oltre al resto, con l’enigmatico fenomeno dei riots nel suo paese; Sarkozy annaspa, sfiorato da scandali di vario genere; Zapatero ha annunciato il ritiro dalla politica e neanche Berlusconi si sente tanto bene. Il secondo girone del potere non sembra più protetto: basti pensare all’ascesa e alla repentina caduta di Strauss-Kahn.
Il potere hard sta migrando in altri luoghi? Il mondo resterà  forse senza leader? Battute a parte, l’orizzonte di instabilità  personale e la repentina perdita di carisma che ho descritto pongono interrogativi che meritano attenzione. Significa infatti che una varietà  di elementi di sfondo della cultura politica sono cambiati di recente in modo così brusco che i “nostri” non sono riusciti a percepirli e tanto meno a prenderne il controllo. Il primo di questi è la diffusione capillare della comunicazione digitale (telefonini, computer, reti sociali), che pareva una novità  tecnologica e si sta invece rivelando una bomba politica senza precedenti. La gente comincia a disporre di forme inedite di collegamento e così acquista la capacità  di “trovarsi”, di farsi sentire, di organizzare manifestazioni e proteste, anche senza sapere se esista una qualche bandiera da issare. Questa risorsa è il presupposto dei sommovimenti dei paesi arabi.
Sebbene la conclusione di quelle crisi non si annuncia promettente in tutti i casi (si pensi al regime militare che si sta formando in Egitto), è chiaro che nella politica è entrata di prepotenza una nuova variabile, dinanzi a cui il potere ancien régime – sempre una lega più indietro dell’evoluzione della società  – è cieco e sordo: la “democrazia digitale”, della quale non abbiamo visto finora che i primi episodi e di cui ignoriamo il segno. Alcuni aspetti però già  si intravedono: tra questi l’eccezionale potenziale di contagio. In aggiunta, la sfera dei comportamenti collettivi è ormai caratterizzata da una catena di innovazioni che ha la velocità  di una pantera: ti accorgi che c’è solo dopo che è passata; e un politico alla maniera tradizionale (o persino quando sembra più moderno di altri) è del tutto incapace di starle appresso e di sentirne l’odore. E dato che (come notava Hannah Arendt nel suo Sulla violenza), «il peggior nemico dell’autorità  è il disprezzo e il modo più sicuro per scuoterne le basi è il riso», il potere può essere spiazzato, anche nei paesi più cupi, con comportamenti creativi: fenomeni come la “battaglia delle pistole ad acqua” che si accenna in Iran o l’opposizione a Lukashenko fatta… a scoppi di risate per la strada sono interpretazioni geniali, minimaliste ma micidiali, di questa possibilità .
E per l’occidente? Qui valgono, oltre alle considerazioni che ho appena fatto, anche fattori più specifici. Che i riots inglesi si siano prodotti mediante istantanee auto-convocazioni via telefonino e social forum sembra indiscutibile. Il modo della convocazione di massa ne indirizza però anche le forme: il vistoso elemento rock (movimento, vibrazione) e nichilista (“sfasciamo tutto”), aggiunto al gusto dell’atto gratuito (“vediamo l’effetto che fa”), assai evidenti nei fatti d’Inghilterra, possono portare a risultati catastrofici. A qualcuno per esempio potrebbe sembrare fun vedere che effetto fa l’Inghilterra intera (o l’Europa) in fiamme. In questa chiave, le sommosse inglesi possono diventare di scatto un pericoloso paradigma.
Dinanzi a questi fatti i governi occidentali dovrebbero esser seriamente preoccupati ed esercitare uno sforzo di interpretazione al quale non sembrano preparati. Non a caso, finora il problema dei riots è stato inquadrato come un affare di criminalità  comune. David Cameron ha sostenuto senza esitare che le sommosse di Londra sono “pura e semplice delinquenza”, dimostrando così clamorosamente la grana grossa della sua intelligenza politica. Gli sfugge che i delinquenti di professione fin qui non hanno partecipato e (quel che più importa) che gli agitatori hanno potuto contare su un reticolo finora incontrollabile di media personali (telefonini in testa). Del resto, altri fenomeni collettivi recenti (manifestazioni di movimenti, gruppi, comitati, bande…) avrebbero dovuto suggerire che queste novità  non riguardano solo le polizie, ma più ancora la sfera politica. Che è del tutto disarmata dinanzi a un mondo in cui per organizzare comportamenti collettivi basterà  un tam tam capillare, istantaneo e magari acefalo, che non lascia traccia che nei tabulati.
C’è un’altra novità  che minaccia i sonni dei leader occidentali. Pensiamo a un episodio eloquente: la settimana passata Barack Obama ha tenuto un solenne discorso per tranquillizzare i mercati (“le borse vanno su e giù, ma gli Stati Uniti sono, e saranno sempre, un paese da tripla A”…), e un istante dopo i corsi di Wall Street sono crollati. Si parva licet, Obama era stato preceduto: qualche giorno prima al nostro presidente del consiglio era capitata la stessa cosa. È la globalizzazione, bellezza… verrebbe da dire: delle esortazioni dei leader nessuno sa più che farsene.
I due fatti, sebbene abbiano come sfondo rispettivamente il maggior player economico mondiale e un paese alla periferia dell’impero, raccontano la stessa storia: la squadra alle spalle del potente sta cambiando. Finora questa comprendeva obbligatoriamente un rappresentante del grande capitale (in Italia per questo ruolo bastava un palazzinaro di peso), un tycoon dei media, qualche uomo dei servizi segreti, rappresentanti di lobby e gruppi di interesse e (a seconda dei paesi) esponenti di chiese e confessioni. Talune di queste figure potevano coincidere nella stessa persona. In ogni caso tutti questi individui potevano essere tranquillamente domestic, cioè espressione del mondo di quel paese. Ora quella composizione sembra non bastare più, perché le variabili da controllare, immensamente più vaste, coprono l’intero pianeta. Se il debito pubblico statunitense è in gran parte nel portafoglio della Cina e l’italiano in quello della Germania, la squadra del leader dovrebb’essere integrata da qualcuno in grado di governare movimenti planetari di capitali, da un George Soros o un Warren Buffett.
Ma questi gnomi non lavorano per il potere politico, anzi costituiscono un contropotere rispettato e riconosciuto. Per questo, almeno per ora, il loro interesse sembra più quello di far ballare i governi alla loro musica che di aiutarli a salvare le penne.


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