Tripoli prega fra le macerie “Allah, aiutaci a essere liberi”

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TRIPOLI – Sul muro bianco la scritta con la vernice spray rossa salta subito all’occhio: «We know how to make freedom», Sappiamo come si fa la libertà . Sulla strada centrale del quartiere di Fashtoom, il primo a ribellarsi contro Gheddafi, i guerriglieri adolescenti agitano come un giocattolo il kalashnikov scrostato che li fa sentire adulti. Alla rotonda, i resti di una Bmw bruciata costringono a un giro largo. Il paesaggio è quello di Blade Runner: bidoni incendiati ancora fumanti, aiuole rovesciate, ovunque rifiuti. Finestre chiuse, porte sbarrate. E posti di blocco con miliziani giovanissimi ogni 150 metri. I muri continuano a gridare: «Vai via», oppure: «17/2/2011, viva la rivoluzione», ma anche: «Fashtoom free» e «Gheddafi ebreo». Nelle vie accanto, la bandiera sventola ancora sull’ambasciata del Sudafrica, senza un graffio. E lo stesso vale per un paio di rappresentanze europee. Poco più avanti, la grande residenza dell’ambasciatore italiano esternamente appare sfregiata solo dagli insulti spray rivolti al raìs. Ma all’angolo, prima dei palazzi di Tv Jamahiriya, le tracce dei bombardamenti Nato sono ben evidenti: due edifici rasi al suolo, erano «della sicurezza», cioè sedi di servizi statali vicini al regime.
Al venerdì mattina le strade di Tripoli sono deserte. È il momento della preghiera, non importa per quale fazione si combatta: il richiamo del muezzin si diffonde dai quartieri della zona costiera, controllata dai ribelli, fin lontano verso sud, nelle aree in mano ai fedelissimi del colonnello. Gli uni come gli altri rispettano il dovere da buoni musulmani. A combattere si riprende più tardi. Persino la piazza Verde appare vuota. C’è solo qualche bambina in hijab che si affretta verso casa, e i segni evidenti dell’euforia collettiva: le strisciate delle macchine usate nei caroselli, bossoli di ogni calibro e numerose pallottole, in genere intere, a indicare che sono state usate per sparare contro le stelle, nella gioia per la conquista della città .
Ma che Tripoli sia davvero in mano ai ribelli per ora sembra solo un’illusione. Dare ascolto alle rivendicazioni dei combattenti di una parte o dell’altra è tempo perso: già  nei giorni scorsi le dichiarazioni baldanzose del Consiglio Nazionale di Transizione hanno dimostrato una credibilità  simile a quelle del regime, cioè molto modesta. Persino il New York Times teorizza che siano dichiarazioni bugiarde, ad uso e consumo dei militanti. Insomma, un modo per dire: avanti, ché alla vittoria finale manca poco. Per i ribelli, la capitale è presa; per gli altri, è solo un momento di difficoltà . I primi ammettono che ci sono “sacche di resistenza” ma assicurano che saranno annientate presto. In realtà , la stessa testimonianza dei giornalisti rapiti, in mano ai lealisti per un giorno intero, smentisce la leggenda: la zona ancora controllata dai fedelissimi è vasta, quartieri interi continuano ad innalzare la bandiera verde ed esibire i ritratti del raìs.
Una ricostruzione possibile potrebbe essere questa: in mano ai ribelli c’è senz’altro la zona costiera, con il porto, la Piazza Verde, la città  vecchia. Questa fascia si estende fin verso Ovest. La strada per Zawiya è controllata ogni 500 metri da miliziani e sbarrata spesso da giganteschi blocchi di cemento, a forma di “X” ma tridimensionali, come cavalli di Frisia: sono quelli normalmente usati nei porti come frangiflutti, qui adoperati dai guerriglieri per rallentare il traffico e tenere sotto controllo chi arriva.
In mano ai lealisti resta per il momento la zona sud: i quartieri sotto la strada che va verso l’aeroporto, la zona di Abu Salim e Bab el Aziziya, con il compound governativo, il centro commerciale di Aisha Gheddafi e la blindatissima caserma delle truppe scelte, la guardia personale del colonnello. Giovedì i ribelli sono riusciti a buttar giù un cancello corazzato del compound, usando un bulldozer dopo un inutile assalto a forza di granate Rpg: secondo il racconto di un testimone diretto, sono riusciti ad attraversare il compound da una parte all’altra, senza resistenza. Ma si tratterebbe comunque dell’anello esterno: la caserma dei fedelissimi sarebbe ancora fuori portata, per il momento.
Nell’ospedale di Abu Salim sono stati ritrovati almeno duecento cadaveri: la struttura era rimasta isolata per una settimana perché i cecchini tenevano a distanza tutti, compresi medici e infermieri. Così i pazienti sono morti di stenti, abbandonati al loro destino.
Il fronte passa dunque vicino all’aeroporto, colpito ieri dall’artiglieria dei lealisti. La strategia dei fedelissimi sembra abbastanza chiara: “tenere” verso sud vuol dire assicurarsi una possibile via d’uscita verso le zone più vicine al vecchio regime, anche quando le possibilità  di rovesciare le sorti dello scontro si assottigliano. In altre parole: la resistenza dei governativi è ancora fortissima, ma non per una fedeltà  tribale ormai indebolita, quanto per mancanza di scelta. Questa è una guerra civile, non uno scontro fra gentiluomini. Per i gheddafiani si sa, basta vedere la bestiale esecuzione a freddo dell’autista dei giornalisti italiani, colpevole di arrivare dalla città  sbagliata e di aiutare gli stranieri. Ma anche dall’altra parte si ragiona allo stesso modo. Un giovane fotografo italiano ha ripreso i corpi dei lealisti abbattuti dai ribelli, nel pieno centro di Tripoli. Le immagini sono riprese da lontano, ma comunque si vede con chiarezza: i combattenti uccisi avevano le mani legate dietro la schiena. In Libia, in questi giorni, non si fanno prigionieri.


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