Siria, trattativa per i 4 giornalisti italiani

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SILENZIO, si tratta. Dalla Siria arrivano i bollettini del massacro quotidiano, le cifre più o meno affidabili dei morti, l’allarme per un patrimonio archeologico inestimabile messo a rischio dai combattimenti. Ma sui quattro giornalisti italiani non ci sono notizie. Il silenzio stampa coincide con l’obiettiva mancanza di informazioni, a parte le voci che si rincorrono. Ma anche il silenzio, di per sé, è una notizia. Se fossero stati «trattenuti per un semplice controllo», come molti vogliono far credere, e non rapiti, a questo punto avrebbero dovuto essere già  liberi. O, quanto meno, avrebbero dovuto poter comunicare: siamo qui, va tutto bene, presto riprenderemo il lavoro.
È vero che in una situazione di guerra i controlli sono laboriosi, che eventuali riprese di “obiettivi sensibili” suscitano sospetti, e che la gerarchia militare è sconosciuta ai nuclei dei ribelli. Ma più tempo trascorre, più la preoccupazione si legittima. È difficile non pensare al giornalista americano James Foley, sequestrato il 22 novembre 2012 nel nord-ovest siriano e ancora nelle mani dei rapitori. Brutta avventura anche quella dell’ucraina Anhar Kochneva, sequestrata dai miliziani perché considerata «troppo favorevole » al regime di Assad ed evasa solo dopo cinque mesi.
Maggior ottimismo ispira l’avventura di Richard Engel, inviato della Nbc, sequestrato assieme a tre colleghi da un gruppo «non identificato» e liberato dopo cinque giorni, in seguito però a un conflitto a fuoco fra gruppi rivali. Invece non è ancora tornato a casa Austin Tice, reporter ed ex marine, che sembra sia stato catturato da truppe governative di Damasco.
Fra le poche certezze, c’è l’ansia del fronte ribelle di controllare l’informazione internazionale. Ieri anche The Daily Beast, il sito gemello di Newsweek, segnalava in un ampio reportage l’ormai diffusa abitudine dei ribelli, di imporre agli inviati stranieri autisti e traduttori. Secondo i giornalisti consultati, dietro questa decisione c’è l’intento di far soldi ma anche quello di controllare i movimenti della stampa, soprattutto quando fa domande sulla presenza di jihadisti nelle file dei ribelli.
Secondo un recentissimo studio del King’s College di Londra, gli stranieri impegnati nella lotta contro il regime di Bashar Assad potrebbero essere più di cinquemila, fino al 10 per cento dei combattenti. E quali siano le motivazioni dei mujahiddin arrivati da mezzo mondo sembra rivelarlo l’appello rilasciato sul web da Ayman al Zawahiri, leader di Al Qaeda: «Lasciate che la vostra lotta nel nome di Allah abbia l’obiettivo di stabilire la sha’ria come sistema di governo. Che la vostra guerra santa contribuisca a ristabilire un grande califfato islamico».


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