Dall’autostrada ai bus quei favori agli imprenditori che svelano il sistema-Sesto

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A volte viene da dire, leggendo le carte giudiziarie: ma come si permette questo imprenditore semisconosciuto di infangare, senza fornire prove incontrovertibili, un leader regionale come Filippo Penati?
La risposta, proseguendo nella lettura delle carte, arriva nitida: e chi è stato, se non lo stesso Filippo Penati, a esporsi così tanto? Chi, se non Filippo Penati da Sesto, Pd, si è messo alla mercé delle accuse e delle vanterie di uno come Piero Di Caterina, molto lesto a cambiare bandiera? «Il cuore del processo – dicono al palazzo di giustizia di Monza – sta nei favori che i due si sono fatti». Oggi, come si sa, le tangenti non sono più, come un tempo, semplici valigette di denaro. Sono, appunto, i favori, le «corsie privilegiate» per gli appalti, le consulenze, l’uso da parte dei politici dei soldi e dei beni degli «amici», il cosiddetto «sistema gelatinoso», intravisto più spesso a destra (Verdini, Dell’Utri, Bertolaso) che a sinistra. «Il cuore del processo – aggiungono ancora Monza – sta in un episodio che secondo noi fa da spartiacque tra il lecito e l’illecito».
Quindi non facciamoci frastornare dal rumore di fondo di cifre in lire e in euro, fogliettini di carta spacciati per verità  assolute, metri cubi e metri quadri delle aree dismesse, dal «già  detto». Concentriamoci su questo fatto. Sottolineando che non riceve ancora spiegazioni sensate dall’ex presidente della provincia di Milano ed ex candidato pd alla Regione. Succede che, con la sua aria da camionista bullo, Di Caterina diventa un ex amico di Penati e va a bussare a quattrini. Rivuole indietro dei «contributi», dei «prestiti», come li chiama lui. Non viene mandato a quel paese. Anzi ottiene, in cambio di niente, un guadagno di ben 2 milioni di euro sull’unghia.
Questa magia dipende da una compravendita che non si realizza. L’attenzione degli investigatori si concentra sul contratto preliminare d’acquisto di un immobile: risale al 2008, Di Caterina (venditore) riceve dalla società  Codelfa (compratore) la promessa di una sostanziosa caparra. La vendita non si fa e, come vuole la prassi, nel dicembre 2010 la bella sommetta viene definitivamente incamerata dall’ex amico di Penati.
Il punto cruciale è: questa generosa Codelfa, che perde senza dolersene così tanti soldi, a chi appartiene? Risposta: al gruppo di Marcellino Gavio, imprenditore già  comparso in Tangentopoli, insieme con il suo manager Bruno Binasco, e spesso in connection con uomini del Pci. Il corto circuito diventa lapalissiano se si legge in controluce (viene da dire in filigrana) una storia molto famosa a Milano.
Nel 2005 Penati ha lasciato la Stalingrado Rossa (vecchio soprannome di Sesto San Giovanni) ed è il presidente della Provincia di Milano: è uno dei pochi di sinistra a non affogare nella marea di voti della Lombardia ciellina, forzista, leghista. Con il passare degli anni è diventato ed è (sino all’inchiesta) il «proconsole» al Nord di un partito, il Pci/Pds/Pd, diventato sempre più «antipatico» e perdente nelle regioni settentrionali d’Italia. Gli operai preferiscono il voto alla Lega e voltano le spalle ai litigiosi compagni Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Da Roma scaricano su Penati la resistenza nella trincea più difficile: lui «combatte» e «dialoga». E dal suo nuovo ponte di comando, nonostante proteste trasversali e indagini, decide di far diventare la Provincia azionista di riferimento dell’autostrada Serravalle: la trafficata Milano-Genova.
Impone di comprare il 15 per cento del capitale in mano al gruppo – rieccoci al nodo – di Marcellino Gavio. Queste «azioni autostradali» vengono acquistate al prezzo clamoroso di 8,9 euro l’una, contro i 2,9 euro che Gavio aveva sborsato a suo tempo. Il guadagno è di 6 euro ad azione. I tecnici usano la parola neutra di «plusvalenza» per parlare di un tesoro pari a 179 milioni di euro che un ente pubblico (Provincia di Milano) «regala» a un privato (Gavio). Tutto regolare? Oppure quel prezzaccio sottintendeva un’occasione per generare e incassare mazzette?
Risposte sicure non se ne trovavano, finché dal nulla delle tangenziali e dei palazzoni di Sesto spunta il fatidico Di Caterina. È lui che cerca il polverone e rivela ai magistrati, prima di Milano e poi di Monza, le tracce di «trattative segrete» Penati-Gavio. Certo, non era più in buoni rapporti con Penati, perché non aveva ottenuto la corsia privilegiata in un ricco affare immobiliare di via Pace, sempre a Sesto San Giovanni. «Io però – continua Di Caterina, non nascondendo il risentimento – avevo buoni rapporti con Antonio Princiotta, all’epoca segretario generale in Provincia». Sarebbe stato lui a raccontargli come e quando Penati, i suoi fidi e il manager Binasco del gruppo Gavio stessero «trattando l’importo che sarebbe stato retrocesso a Penati e Vimercati».
Soldi in chiaro e soldi in nero, con Princiotta che si sarebbe poi lamentato di non aver ricevuto il becco di un quattrino. In più: «Ho saputo da Vimercati – dice Di Caterina – che Penati sulla Serravalle lo avrebbe fregato e che Penati avrebbe ricevuto il guadagno dall’operazione a Montecarlo, Dubai e Sudafrica». Di questi soldi però (sinora) non c’è traccia: non esiste nell’inchiesta e nel lavoro dei detective della Finanza il riscontro di un euro che arrivi nelle tasche di Penati. C’è però quel «regalo»: quella caparra da 2 milioni che senza alcuna logica il gruppo Gavio fa all’assetato di soldi Di Caterina, sempre più minaccioso per Penati.
Il quale, mentre le voci più curiose dell’indagine cominciano a circolare, «sbarella» e compie una mossa kamikaze: incontra un altro imprenditore di riferimento nella sua Sesto, Giuseppe Pasini. I detective della Guardia di finanza lo sanno, seguono l’anziano imprenditore, ultraottantenne. Vedono arrivare il politico in ansia. I due entrano in un bar. Non è possibile usare la tecnologia per «ascoltare» il discorso, ma è lo stesso Pasini che poi, interrogato dai sostituti procuratori monzesi Franca Macchia e Walter Mapelli, racconta di essersi sentito chiedere: «Vero, Giuseppe, che io non ti ho mai chiesto soldi?». È per questo tentativo di «inquinamento probatorio» che i pm volevano l’arresto di Penati, negato dal gip. Perché, fascicolo dopo fascicolo, la ragnatela dei favori reciproci tra Di Caterina e Penati diventa per la procura tale da non lasciar capire più chi sia la mosca e chi il ragno tra il titolare della Caronte, impresa di trasporti, e l’ambizioso politico. E tutti questi fili erano, sono e restano concentrati tra Sesto e dintorni, dove la Caronte di Di Caterina riceve in subaffitto – decenni fa – una linea di bus tra Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo. Questa linea è associata al consorzio Sitam, una sorta di cassa di compensazione, gestita dalla Atm. E chi era il presidente del Consorzio? Quel Giordano Vimercati, ex capo di gabinetto di Penati in Provincia, che poi farà  le trattative per le azioni dell’autostrada Serravalle.
«Tutto quadra», si dicono i magistrati, osservando come, negli anni successivi, Penati e i suoi si siano dati da fare moltissimo affinché Di Caterina ricevesse dall’Atm i soldi dovuti, ma pagati dall’azienda pubblica con enorme ritardo. È una ragnatela di dare e di avere, con un inizio: «Dopo qualche tempo dalle elezioni, certamente dopo il 1994 perché era già  nata Forza Italia, Penati e Giordano Vimercati – afferma Di Caterina – mi chiesero sostegno finanziario per le esigenze locali del partito, ma anche per la federazione milanese del Pds. Ricordo elargizioni di 20-30 milioni di lire al mese all’inizio. Consegnavo le buste contenenti il denaro contante a Vimercati».
1994, era Tangentopoli: in quel periodo è l’inchiesta Mani pulite è al crepuscolo, ma gli imprenditori, ancora intimoriti dal pool, finanziano molto malvolentieri i partiti, ormai alla canna del gas. Uno solo ha in Italia denaro da sprecare: è il padrone di Mediaset e della Mondadori. Può permettersi spot e manifesti. Sembra che lui sia l’unico candidato e Forza Italia il solo partito. Con un fiume di denaro fresco – lo stesso fiume in piena che oggi scorre per pagare le grazie e i silenzi di Ruby Rubacuori e Nicole Minetti, per frenare i turbamenti dell’imprenditore Giampi Tarantini che gli portava le escort a Roma, per zittire il «reporter salvaguai» Valter Lavitola, per soccorrere il Lele Mora bancarottiere, e per chissà  quanti altri – Silvio Berlusconi nel ‘94 occupò la scena. E se Penati, realisticamente, in quel 1994 voleva restare a galla nella competizione elettorale al Nord, che cosa avrebbe potuto o dovuto fare? Ricorrere a qualcuno che gli «presti» (è un eufemismo) i capitali per la politica? Grave, ma tutto sommato semplice: oggi si parla in procura e sui giornali del «sistema-Sesto», del «direttorio», chissà . Quello che emerge è il racconto dello sforzo decennale di un politico periferico, musone e secchione, senza riferimenti a parte nell’ultimissimo periodo, con Pierluigi Bersani, di arrivare alla serie A. A qualunque costo, si usa dire, pensando che non arrivi mai la resa dei conti.


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