E nella piazza delusa Maroni si defila per non essere acclamato

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VENEZIA – «Ma dov’è Bobo?». La domanda serpeggia tra i militanti leghisti che stanno assistendo al rito dell’ampolla, l’acqua del Po prelevata dal Monviso e versata in Laguna da Bossi. Accanto al Capo ci sono il figlio Renzo, già  designato successore dal Senatùr tre giorni fa a Pian del Re, Roberto Calderoli, anche lui promosso «braccio destra a Roma», i capigruppo al Parlamento, la Rosi Mauro, Roberto Cota. Ma Maroni non si vede. Si è nascosto là  in fondo al palco, con tutta evidenza non vuole che si ripetano i cori da stadio che durante il suo intervento l’hanno acclamato più volte “presidente”. Come diceva quell’ormai famoso striscione innalzato tre mesi fa sul pratone di Pontida. Ce n’è un altro, qui a Venezia, abbastanza tosto. Raffigura una spina da corrente elettrica, ci sono delle frecce che indicano di staccarla, con buona pace del Calderoli che “andremo avanti con questa compagnia fino al 2013”. Caso Milanese permettendo, dal momento che una parte del Carroccio, proprio l’ala maroniana, ha una gran voglia di dire sì, tra qualche giorno, all’arresto del deputato Pdl chiesto dalla magistratura.
Ma Maroni che fa? Non vuole, non può esporsi più di tanto. Per i malpancisti della Lega, quelli pronti a mollare il Berlusca, è lui il punto di riferimento. Ma non bisogna tirare troppo la corda, il ministro degli Interni da qualche settimana ha deciso invece di tirare il freno a mano, immolandosi al totem di un’unità  interna che anche qui, a Venezia, appare molto di facciata. Basta ascoltare le urla dell’altro Roberto di governo, il Calderoli, che apre così il suo intervento: «Mi han detto che stamattina non ci sarebbe stato nessuno, che voi eravate spaccati in due». Tutte «balle» dei giornalisti, of course. Ma allora perché Calderoli subito dopo si produce in una pesantissima invettiva contro i primi cittadini leghisti che hanno osato criticare la manovra economica? Dice così, il ministro orobico: «Voglio dare una bella tirata d’orecchie a certi sindaci più realisti del re, più bossiani di Bossi, gente che canta fuori dal coro solo per andare sui giornali». Sono «fratelli coltelli» e va loro ricordato che «senza Bossi non sarebbero niente». Ma com’è che dalla folla si leva un coro? Urlano «Tosi – Tosi», così si chiama il sindaco di Verona, che con il collega di Varese Attilio Fontana, entrambi maroniani, ha guidato la rivolta degli antiberluscones in camicia verde.
E com’è che entrambi non sono sul palco? Ci saliranno solo quando Calderoli avrà  finito di parlare: non è un caso, ma una mossa concordata. Sembrano un po’ ammaccati dal nuovo attacco sferrato dal ministro alla Semplificazione, e pure anche un po’ disorientati da quello che dirà  tra poco Maroni: «Ma quali divisioni, sono tutte balle, voglio ringraziare Calderoli, un grande lavoratore». Pausa, un’occhiata al collega, e poi: «Anzi, dovresti lavorare di meno». Fontana, che per obbedire al diktat del “federale” ha dovuto dimettersi da presidente dell’Anci lombarda, sembra il più provato. Ma quando scende dal palco si illumina: sono in tanti a corrergli incontro, strette di mano e incoraggiamenti: «Vai avanti così».
Niente divisioni? E allora bisogna ascoltare quel che dice un leghista di un’altra parrocchia, vicino a quel Cerchio magico che ha sempre visto Maroni come il fumo negli occhi. Si chiama Flavio Tremolada, fa l’assessore a Lesmo, in Brianza, e mostra di non aver affatto gradito gli slogan su “Maroni presidente”, e in due battute mette a posto Tosi e il titolare del Viminale: «Visto che adesso torna la secessione, mi sembra impossibile farla con le fasce tricolori dei nostri sindaci e con un premier della Lega». Ecco qua, tutti uniti appassionatamente, come no. E come la mettiamo con il divieto impartito ieri ai giovani padani? Non parlare con i giornalisti, salvo quelli di Radio e Telepadania.


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