Guerra alle ingiustizie per far strada alla pace

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La marcia, che si snoda su un percorso di 24 km fra Perugia e la rocca di Assisi, rievoca idealmente quella fatta  in India da Ghandi quando, a scopo dimostrativo, raggiunse il mare per procurarsi il sale in violazione delle leggi dei colonizzatori britannici. E ogni anno richiama in Umbria migliaia di persone da tutta Italia.
Nel 1961, la scelta di riunire a Perugia i cittadini e i gruppi che si riconoscevano nel pensiero non violento fu un modo per reagire al clima di tensione generato dalla Guerra Fredda. Una manifestazione di dissociazione civile rispetto alle dinamiche violente – palesi o latenti – che dominavano la scena internazionale.
E oggi? In un contesto geopolitico così mutato, che significato assume l’iniziativa? Ognuna delle numerose sigle e associazioni presenti potrebbe dare una risposta diversa. Ognuna, al di là  dell’adesione ai principi nonviolenti, porterà  con sé un tema, uno spunto, una preoccupazione legati all’attualità  del momento e alle ragioni del proprio impegno. Emergency ad esempio parteciperà  anche a nome di Francesco Azzarà , il suo collaboratore rapito ad agosto in Sudan; la Confederazione Italiana Agricoltori sfilerà  con una riproduzione del trattore-mappamondo dei fratelli Cervi; Amnesty ricorderà  le vittime senza nome dell’emigrazione; i tanti Comuni ed enti locali aderenti protesteranno contro i tagli alle risorse destinate alle politiche sociali. “Tagliamo sulle spese militari, non sui diritti dei cittadini” sarà  una delle rivendicazioni di sigle come la “Rete Disarmo” e “Sbilanciamoci”. Tutti temi vicini anche al Gruppo Abele, che sarà  presente con una sua delegazione per dire che la pace comincia dalla giustizia sociale, dall’uguaglianza, dagli strumenti per garantire la libertà  e dignità  di ogni persona, a partire dalle più povere e fragili.
Per leggere la manifestazione di oggi anche alla luce delle idee che la ispirarono 50 anni fa, abbiamo fatto alcune domande a Mario Martini, professore dell’Università  di Perugia e responsabile scientifico della fondazione “Aldo Capitini”.

Come è nata la Marcia e quanto sono mutate in questi 50 anni le motivazioni che spingono ogni anno i pacifisti a camminare da Perugia ad Assisi?
È la situazione storica a essere mutata. Ma le motivazioni profonde di Capitini andavano, già  allora, oltre la Storia, per questo possiamo dire che non sono cambiate. Capitini prendeva idealmente le mosse da Ghandi, ma il suo progetto si ispirava anche alle più recenti marce antiatomiche organizzate da Bertrand Russel in Inghilterra. Voleva inventare qualcosa che si contrapponesse al clima di tensione creato dalla Guerra Fredda. Voleva insomma sostituire alla minaccia delle armi – tutte, fino a quelle atomiche – un atteggiamento nuovo, quello della nonviolenza.
Queste marce si sono mostrate via via come un segnale di crescita della coscienza civile e della stessa coesione sociale. Oggi direi che il principale scopo della nonviolenza, di cui la marcia è una delle tante espressioni, è quello di far ritrovare alla gente una propria voce che vada al di là  di quel potere politico, a volte fraudolento, che invece spezza i legami sociali. Esempio di rottura dei legami, e di riduzione dell’uomo a “cosa”, sono gli effetti della propaganda consumistica e televisiva dei mass-media. La marcia al contrario è qualcosa di autentico, che i cittadini scelgono di fare e necessita di una partecipazione reale.

Il movimento pacifista ha vinto in questo mezzo secolo molte battaglie, ma rimangono da fare. Verso quali obiettivi deve concentrarsi oggi lo sforzo?
L’obiettivo principale è superare la mentalità  violenta. Un obiettivo complicatissimo da raggiungere oggi, un obiettivo di coscienza civile e sociale.
A livello internazionale vuol dire affermare finalmente l’idea che le controversie e i focolai di conflitto  non possono essere affrontati in maniera utile con lo strumento “guerra”. Se si cominciasse a pensare che le cosiddette ‘guerre democratiche’ sono una contraddizione in termini – poiché non si può ammazzare la gente per espandere la democrazia – ci si libererebbe di un inganno. La democrazia si esporta con altri mezzi. Penso all’azione di movimenti come Medici senza frontiere oppure personalità  come don Tonino Bello e, oggi, Flavio Lotti o Vittorio Arrigoni.  

Marciare per la pace vuol dire anche protestare contro le pecche di un sistema che non è in grado di realizzarla. In che modo è cambiato il modo di esprimere dissenso rispetto alla prima marcia del 1961?
Capitini fu un innovatore perché mai in Italia erano state fatte “marce” dimostrative. Quello che più si avvicinava a ciò che lui propose erano le processioni religiose. Ma quella di Capitini voleva essere una protesta civile. Oggi le forme sono cambiate, ma le marce rimangono espressioni concrete e vitali. Lo dico per esperienza: su questi 24 km arriva ogni anno tantissima gente, e soprattutto giovani. Proprio i giovani, che sono gli inventori e “utenti” delle nuove forme di espressione del dissenso e dell’alternativa, soprattutto di quelle virtuali, sentono ancora la necessità  dell’incontro, del contatto. Si organizzano virtualmente, ma poi dimostrano “fisicamente”. 

Tra Perugia e Assisi si incontrano ogni anno i giovani delle prime marce ormai diventati adulti, e i loro figli. Molte facce sono cambiate, anche l’idea di pace si è adattata al cambiamento?
L’ideale di pace è sempre lo stesso ed è sotteso a quello di nonviolenza: non basta essere pacifisti, è necessario essere non violenti. Questo vale per tutte le generazioni. L’obiettivo della nonviolenza non è traducibile nell’equazione “pace uguale assenza di guerra”, ma è quello di affermare una mentalità  e un modo di essere in positivo. Oggi rispetto alla distruttività  diffusa che si incontra in giro, al disinteresse verso la vita umana, la nonviolenza rimane un messaggio positivo come lo era per Ghandi o Capitini. L’attualità  sta nell’opposizione al vittimismo contemporaneo diffuso, quello che si manifesta nell’abuso di droghe, nelle manifestazioni eccessive dello spirito sportivo, nella competizione sul lavoro, o nella semplicità  con cui si è costretti ad abbandonare un progetto. L’idea che la vita sia preziosa e vada vissuta positivamente non cambierà .


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