Il no di Obama al Palazzo di vetro frena il sogno della Palestina

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NEW YORK – Quando Abu Mazen scuote la testa mentre Barack Obama dice che «la pace non arriverà  attraverso dichiarazioni e risoluzioni dell’Onu», le 193 poltrone su cui sbadigliano i rappresentanti dei 193 Stati del mondo tremano all’unisono come in un terremoto. Perché tutti smettono di guardare il presidente degli Stati Uniti in carne e ossa, che per la prima volta in tre anni l’assemblea non ha mai interrotto con un applauso, per alzare il naso verso i due megaschermi che campeggiano sopra il podio. Come nel più smaliziato dei talk show, il regista della tv interna dell’Onu mostra tutta la delusione dell’aspirante 194esimo capo di Stato. Ma in fondo va tutto come programma. Ed è solo un attimo: ora Obama è già  tornato a parlare di economie emergenti, ambiente, povertà , Aids e cambiamento climatico, elencando i mille propositi di cui – come le letterine di Natale – tutti gli annuali discorsi delle Assemblee generali sono nutrite.
Benvenuti all’Onu, benvenuti nel palazzo inutilmente di vetro perché tanto quello che conta non avviene mai qui dentro. Domani sarà  il giorno più atteso, domani il presidente dell’autorità  palestinese presenterà  ufficialmente la richiesta di riconoscimento. Ma sotto sotto avrà  già  deciso – naturalmente fuori da qui, naturalmente anche dopo il colloquio con lo stesso Obama che ieri l’ha visto al Waldorf Astoria, la casa dei presidenti a New York – di non andare allo scontro diretto: acconsentendo a rimandare a data da destinarsi il voto al Consiglio di sicurezza. La sediolina blu che un membro della delegazione mostra fuori dal palazzone sulla First Avenue, incastonata in un box ovviamente di vetro, per ora resta un amuleto. «Obama svegliati» urlano le poche centinaia di persone autoasseragliate sulla 47esima strada, sotto il palazzone, sventolando bandiere bianche e blu: inneggiano cartelli contrari alla dichiarazione di Durban, per loro lo stato palestinese è una bestemmia, come urlano sotto i cappelloni anche gli ortodossi tutti di nero vestiti qualche metro più in là , farneticando di una unione di «ebrei uniti contro il sionismo».
Ma Barack s’è svegliato eccome. Malgrado quello che dice Rick Perry, il suo sfidante repubblicano, che l’accusa di essere stato «naif, arrogante, mal consigliato e dannoso» nella gestione dei rapporti con Israele, il premier Benjamin Netanyahu è così sicuro dell’amico americano da non presentarsi neppure in Assemblea. Lo aspetta alla fine dei suoi 47 minuti di discorso qualche corridoio più in là , in uno stanzone per la verità  molto poco accogliente, dove i due leader si fanno fotografare sorridenti sotto le rispettive bandiere. L’uomo che ha mandato a quel paese le trattative che il presidente Usa lanciò proprio il 22 settembre di due anni fa, rifiutandosi di congelare gli insediamenti nei territori e a Gerusalemme, adesso riconosce a Barack che «tenere la posizione di principio è stato un distintivo d’onore». Di più: «La ringrazio per aver indossato questo distintivo d’onore: spero che altri seguano il suo esempio».
Beh, adesso spera troppo. Nicolas Sarkozy, che è appena salito sul podio, infischiandosene dell’appello di Obama – «Non ci sono scorciatoie per la pace» – sta dicendo il contrario, avanzando la sua proposta di “compromesso”: «Smettiamola con i dibattiti senza fine» dice come se fosse ancora il presidente della Francia della grandeur «cominciamo le trattative e adottiamo una tabella di marcia». L’obiettivo è il riconoscimento della Palestina come «Stato osservatore»: una risoluzione che l’Assemblea potrebbe fare propria perché i numeri ci sono, una soluzione che per la verità  Abu Mazen ha tenuto di riserva nel caso al Consiglio di sicurezza – dove gli Usa metterebbero il veto – le cose si facessero impossibili. Sarkozy parla per l’Europa e illustra anche la road map: negoziato in un mese, accordo sulle frontiere in sei, intesa in un anno. Vuol dire che Europa e America giocano su campi diversi: le nazioni unite sono già  disunite.
Del resto è lo stesso New York Times a segnalare la difficoltà  di Obama a giustificare la sua «incongruità »: il presidente ci prova e sfodera tutta l’abilità  oratoria. «Un anno fa io stesso da questo podio reclamai l’indipendenza della Palestina. Ma la pace è un lavoro faticoso. Se fosse così facile raggiungerla con una dichiarazione, l’avremmo fatto da un pezzo». Obama rivende la sua credibilità : «Pensateci: un anno fa, quando ci vedemmo proprio qui a New York, le prospettive di un successo del referendum nel Sud del Sudan erano in dubbio». Comincia da lì ed è tutto «un anno fa» non ci avrebbe creduto nessuno: dalla Tunisia «che ha innescato un movimento» all’Egitto e la Libia. «E’ stato un anno eccezionale» dice. «Il regime di Gheddafi è finito. Gbagbo, Ben Ali, Mubarak non sono più al potere. Osama Bin Laden non c’è più, e l’idea che il cambiamento sarebbe potuto avvenire soltanto con la violenza è stata seppellita con lui». Ma la pace, insiste, «non è la mancanza di guerra. La pace è difficile. Si costruisce con un cammino di negoziati».
Parla della sicurezza di Israele, ricorda «il dato di fatto del massacro di sei milioni di ebrei»: e il delegato dell’Iran – Mohammed Ahmadinejad parlerà  oggi – si alza e se ne va, offeso dalla verità . Fa il possibile, Obama: e non scatta neppure un applauso. Perché questa è la stessa assemblea che mezz’ora prima ha interrotto invece con gli applausi la brasiliana Dilma Rousseff: «Solo un pieno riconoscimento della Palestina può rappresentare una garanzia di sicurezza per Israele». Ma che importa? Il giorno più lungo è passato, l’amico israeliano rassicurato – con l’occhio lungo, ci mancherebbe, sul voto jewish che per la rielezione è vitale. E lo scontro finale, si spera, rimandato. Nell’atrio del Palazzo di vetro, quello dove sfilano tutte le delegazioni, campeggia il titolo della bella e toccante mostra fotografica di Greg Constantine. E’ dedicata alle 43 milioni di persone che sulla terra non hanno terra. Il titolo? Sembra quasi una beffa: «I senza Stato di tutto il mondo».


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