Nervi tesi. Così Israele si prepara «al peggio»

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I giornali israeliani riportano dichiarazioni allarmate di esponenti del governo e delle forze armate che illustrano piani «di contenimento delle proteste», di dispiegamento di reparti militari in Cisgiordania e intorno a Gaza e dell’impiego anche dei coloni contro i dimostranti palestinesi. All’estero i diplomatici israeliani, a partire dall’ambasciatore negli Usa, Michael Oren, lanciano avvertimenti e confidano nel veto all’indipendenza palestinese garantito da Barack Obama. A dare una mano alla creazione di questo clima da guerra imminente, sono anche i corrispondenti di diverse reti televisive straniere. L’altra sera, ad esempio, il canale in lingua inglese della televisione russa RT ha trasmesso un lungo servizio sui preparativi israeliani “al peggio” mancando di spiegare che i palestinesi al Palazzo di Vetro ci vanno non per proclamare guerra a Israele ma per chiedere di essere finalmente liberi all’interno dei loro territori (Gaza, Gerusalemme Est e Cisgiordania) dopo essere stati per oltre quattro decenni sotto occupazione militare e aver speso 18 anni in trattative inutili ed estenuanti.
Ogni giorno che passa dimostra che i palestinesi sono uno dei pochi popoli al mondo ai quali non è permesso di essere liberi all’interno di un proprio Stato indipendente, pur avendo dalla loro parte risoluzioni votate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E certo non possono esserlo, come i kosovari, con un atto unilaterale. A quanto pare il loro diritto alla libertà  non è pieno ma parziale. Sono obbligati, a causa dell’alleanza strategica tra Washington e Tel Aviv, a dover raggiungere un accordo con Israele. Poco importa se ciò avverrà  tra 20, 50 o 100 anni. Dovranno stare sotto occupazione mentre le ruspe israeliane spianano le loro terre per costruire case per coloni (che ieri hanno celebrato un aumento delle costruzioni del 660% nei primi dei mesi del 2011 rispetto all’anno precedente). Dovranno stare a guardare mentre la loro capitale futura, Gerusalemme Est, viene trasformata in un insieme di quartieri della Città  Santa «con popolazione araba». Non potranno ribellarsi o scatenare una nuova Intifada. Ma neppure usare gli strumenti pacifici di lotta o la politica e la diplomazia per reclamare i loro diritti. Dovranno rimanere buoni nelle loro aree «autonome» teorizzate a Oslo nel 1993. E possibilmente andare poco in giro, per non suscitare preoccupazioni di sicurezza. Più di tutto non dovranno porre condizioni per negoziare, come ha (debolmente) provato a fare Abu Mazen puntando l’indice contro la colonizzazione. Diversi governi, non solo occidentali, si sono scagliati contro l’«intrasigenza» del presidente dell’Anp, come se non fosse diritto dei palestinesi reclamare l’interruzione di una politica che divora i territori del loro futuro Stato. E Gaza? A chi importa il destino di un milione e mezzo di palestinesi chiusi in una enorme prigione a cielo aperto se quel territorio serve a tenere sotto chiave il movimento islamico Hamas.
E mentre nelle strade di Cisgiordania e Gerusalemme Est i palestinesi sanno bene che le dichiarazioni di indipendenza, vecchie e nuove, a poco servono di fronte al silenzio del «mondo che conta», l’esercito israeliano consegna granate assordanti e candelotti di gas lacrimogeno ai coloni che già  dettano legge sulle terre di altri. Al ministero della difesa a Tel Aviv questa preparazione “al peggio” la chiamano in codice «Operazione semi estivi». Prevede anche una ridefinizione delle regole d’ingaggio per i soldati che dovranno affrontare gli “insorti”. Viene da sorridere pensando che i palestinesi da parte loro tendono ad escludere manifestazioni a ridosso delle postazioni militari israeliane il giorno del discorso di Abu Mazen all’Onu. L’Anp ha organizzato celebrazioni rigorosamente all’interno delle minuscole aree «A» (le città  della Cisgiordania). Hamas, che in via ufficiale non aderisce all’iniziativa diplomatica di Abu Mazen, non andrà  oltre raduni popolari evitando violazioni della tregua con Israele che potrebbero dare fuoco alle polveri di una nuova «Piombo fuso».
Manifestazioni “fuori controllo”, ma comunque pacifiche, potrebbero organizzarle i comitati popolari e le associazioni che già  si battono contro il muro israeliano in Cisgiordania. Ma non è quello che accade ogni venerdì?


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