Parigi come Roma, quell’aria cupa da fine regno

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C’è sentore di mazzette, tradimenti di seguaci e fantasmi di complotti giudiziari, che «biancheggiano» sempre quando un magistrato minaccia il potere. Le sconfitte elettorali in serie (l’ultima, domenica, al Senato), stanno seminando il panico nella destra e minano alla radice il progetto modernizzatore del presidente, anche perché la campagna elettorale per le elezioni di primavera non è il momento migliore per assumere misure di cui il Paese ha urgente bisogno. L’abilità  di Sarkozy e la storica necessità  dell’asse franco-tedesco enfatizzano l’immagine della coppia Parigi-Berlino, intrinsecamente indispensabile per le decisioni che contano in Europa, ma la situazione economica e strutturale dei due Paesi è molto diversa dalla lettura politica.

Nicolas Baverez, uno degli economisti liberali più stimati, esprime il timore (e la previsione) che si avvicini il momento in cui anche la Francia perderà  la famosa tripla A, sigla delle agenzie di rating che, nella globalizzazione fuori controllo, ha sostituito l’indice di felicità  di un Paese. Guai ad essere declassati, (almeno fino a quando non sarà  declassata l’autoreferenzialità  delle agenzie).

«Così non può durare», è il titolo premonitore di un saggio pubblicato in questi giorni dai «Gracchi», circolo di intellettuali e economisti vicini alla gauche, che lancia l’allarme sullo stato di salute della Francia e sul pesante fardello che erediteranno prossimi governi e generazioni.

Da destra e da sinistra, le diagnosi dell’economia transalpina e del sistema-paese sono impietose, anche se mitigate dal livello d’infrastrutture, servizi pubblici, investimenti in ricerca e cultura, organizzazione dello Stato. Senza annoiare con le cifre, basti citare il debito all’85 per cento, il deficit al 5,7 per cento del Pil, il disavanzo commerciale di 75 miliardi di euro, la voragine dell’assistenza sociale a 36 miliardi. Soltanto per pagare interessi sul debito, la Francia spende l’equivalente del budget per l’istruzione. «Inoltre il debito francese — secondo Baverez — presenta una particolare vulnerabilità , essendo detenuto al 70 per cento da investitori internazionali».

Ai buchi di bilancio si sommano effetti decennali di riforme ritardate o insufficienti (in primo luogo l’età  pensionabile), spesa pubblica fuori controllo, resistenze corporative, mancata modernizzazione di un Paese che, rispetto ai principi conclamati, resta chiuso, elitario, sostanzialmente razzista nella gerarchia sociale, a discapito dei più deboli: giovani, donne, immigrati di seconda e terza generazione. «A differenza dei Paesi capitalistici, dove le diseguaglianze sono accettate in quanto modificabili, in Francia sono immutabili per eredità , titoli, status sociale e privilegi», scrivono «I Gracchi» e sembra di rileggere «La casta».

I francesi avvertono «aria di fine regno». Sarkozy è riuscito a deludere l’establishment economico e le classi abbienti presso le quali si era accreditato e i ceti popolari ai quali aveva promesso giustizia ed equità . La crescita dell’estrema destra rende problematico il recupero dell’elettorato tradizionale.

Le storie di mazzette per finanziare campagne e partito minano la credibilità  della destra e le sconfitte elettorali prefigurano, oltre alla fine del «sarkozismo», una Francia tutta rosa, con la gauche insediata a tutti i livelli istituzionali e locali. Prospettiva credibile, ma non scontata, se la sinistra — orfana di Strauss-Kahn — si dividerà  come in passato fra risse interne e fughe ideologiche, anziché unirsi dietro un leader forte e credibile. Prospettiva che, a dar retta ai «Gracchi», non sembra sorretta da un programma riformista praticabile, cioè al passo con le sfide del nostro tempo. Un programma che — non solo in Francia — è «l’ultima chance, prima della notte del populismo». La debolezza dell’alternativa è anche l’ultima speranza di Sarkozy ed è un’altra analogia con la scena italiana. Al netto del «bunga bunga».


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