Egitto, fuoco sulla folla: morti e feriti

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Ieri in Egitto ricorreva il secondo anniversario della rivoluzione che ha deposto Hosni Mubarak. Ma non ci sono state feste per le strade, bensì proteste contro il potere dei Fratelli musulmani e del loro presidente Mohamed Morsi. E la giornata è finita in un bagno di sangue, con le agenzie che battevano il numero delle vittime: otto morti, tra i quali una donna, due minori e due militari nella città  di Suez mentre i feriti sono duecentocinquanta in tutto il Paese.
Migliaia di persone si sono radunate in piazza Tahrir al Cairo, culla della rivolta contro l’ex raìs, ma altrettante hanno affollato le strade di Alessandria, di Ismailiya e di Port Said. «La nostra rivoluzione continua — ha detto alla Reuters Hamdeen Sabahy, uno dei leader della sinistra —, noi rifiutiamo il dominio di qualsiasi partito sullo Stato». I manifestanti hanno preso di mira istituzioni pubbliche e sedi della confraternita. Gli scontri a Suez si sono concentrati nelle vicinanze del palazzo del governatore, dove i ragazzi hanno lanciato pietre e molotov contro i poliziotti che hanno sparato, uccidendone sei. L’edifico alla fine è stato incendiato. In piazza Tahrir i rivoltosi hanno tirato bombe molotov per aprirsi un varco nel muro di cemento che li separava dal ministero dell’Interno e il Parlamento, le forze di sicurezza hanno inondato la piazza di gas lacrimogeni e hanno dato fuoco a una decina di tende in cui i giovani si erano accampati.
Nelle piazze si sono sentiti gli slogan dei giorni della rivoluzione: «Vattene, vattene, vattene», «Il popolo vuole far cadere il regime»; «Non siamo qui per celebrare ma per obbligare chi è al potere a cedere al volere del popolo».
Alle manifestazioni si sono unite azioni di disobbedienza civile, come il blocco di binari di treni e di metropolitana e di ponti sul Nilo al Cairo, ispirate dagli ultras della squadra el Ahly, che per oggi aspettano la sentenza per il massacro allo stadio di Port Said dello scorso febbraio. Imputati una settantina di agenti e responsabili delle forze dell’ordine accusati di avere permesso la strage nella quale hanno perso la vita 74 tifosi della squadra, diventata simbolo della rivoluzione.
Proprio ieri Amnesty international aveva diffuso un rapporto in cui si accusava Morsi di non aver garantito finora uno Stato di diritto. Nella denuncia dal titolo «Impunità  dilagante: ancora nessuna giustizia per i manifestanti uccisi nella rivoluzione del 25 gennaio» si legge quasi un triste presagio degli avvenimenti di ieri: «Le uccisioni, purtroppo, non sono solo un ricordo del passato. Da quando il presidente Mohamed Morsi è salito al potere, almeno 12 persone sono morte durante le proteste: 10 di loro nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2012, durante scontri tra sostenitori e oppositori del presidente Morsi, quando le forze di sicurezza non intervennero per proteggere i manifestanti dalle violenze e dalle aggressioni compiute dai primi contro i secondi».
Qualcuno però ha deciso di difendere chi scende in piazza. Ieri nelle strade di Alessandria e del Cairo sono comparsi per la prima volta dei giovani in nero col volto coperto che affermavano di voler proteggere i manifestanti dalle cariche della polizia. «Questo è un regime più criminale di quello di Mubarak — ha detto un contestatore all’Ansa —. Se Morsi non se ne va continueremo a resistere. Noi manterremo il carattere pacifico delle nostre proteste, ma il sangue dei nostri fratelli è caro e non rinunceremo a vendicarli».
Dopo l’approvazione della Costituzione egiziana, lo scorso 22 dicembre, Morsi e i Fratelli musulmani avevano sperato di avere un periodo di relativa tranquillità  in vista delle elezioni parlamentari di aprile. Ma la verità  è che la tanto attesa stabilità  politica ed economica resta, per ora, un miraggio. Organizzazione e disciplina non basteranno a governare il Paese. E il presidente appare sempre più sotto pressione.


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