Perché va difesa la Crusca

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L’evocazione dell’Accademia della Crusca nella vaga reminiscenza liceale del lettore medio del supplemento libri del Sole ricorda battaglie linguistiche e letterarie tra conservatori, i cruscanti, e innovatori, gli altri.
Se poi la reminescenza è meno vaga il lettore può ricordare un divertente pezzo di Alessandro Verri sul Caffè del 1764, Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico del Vocabolario della Crusca, in cui l’autore rivendicava una libertà  linguistica e l’uso della lingua parlata di contro alla parlata toscana letteraria, difesa strenuamente dall’Accademia della Crusca attraverso la compilazione del Vocabolario omonimo. Vocabolario che lo stesso Don Lisander Manzoni nella sua maniacale revisione toscaneggiante de I Promessi Sposi considerava eccessivo per conservatorismo linguistico.
Si tratta quindi di un Ente che andava soppresso un po’ di tempo fa e dobbiamo ringraziare Berlusconi di averlo finalmente fatto? Se però il lettore supera il fastidio di discutere di cose polverose di cultura (e si spera che il lettore che compra il domenicale lo faccia per leggere di cose polverose di cultura e non solo per farsi la fama di intellettuale con gli amici al bar) trova tra le righe dell’articolo del presidente della Crusca, Francesco Sabatini, e in quello di spalla di Claudio Giunta un ragionamento che lo deve far riflettere, ossia che la Crusca oggi ha una funzione importante nel promuovere delle ricerche scientifiche sulla lingua in funzione non solo della conservazione di un patrimonio linguistico in aperta svendita quotidiana ma anche in funzione della necessaria base scientifica che deve esistere dietro ogni discorso che mira alla divulgazione delle idee attraverso lo strumento comunicativo per eccellenza: il linguaggio.
Vengono alla mente allora due citazioni che sembrano andare verso una direzione precisa: l’una è tratta dal pamphlet, caro al pensiero libertario moderno, Il Discorso sulla servitù volontaria di Etienne De La Boètie, filosofo francese del ‘500 amico di Montaigne, ove l’autore afferma che la natura ci ha dato «. L’altra citazione è in realtà  una raccomandazione che Don Milani nella Lettera ad una professoressa, altro classico del pensiero democratico, indirizzava ai suoi ragazzi quando li spingeva a studiare la grammatica per impadronirsi del linguaggio dei padroni per poter affermare le proprie ragioni. In entrambi questi testi viene in evidenza l’idea del linguaggio, per dirla con un concetto odierno, come bene comune, ossia bene il cui accesso deve essere libero e il cui uso deve essere garantito a tutti come diritto alla cittadinanza attiva.
Se la lingua è un bene comune immateriale ma altrettanto essenziale di beni comuni materiali come l’acqua, vi è una logica nel difendere le istituzioni che la studiano e la coltivano. Vi è parimenti una logica negli attacchi della destra a queste istituzioni e a questo patrimonio. Questa logica va capita in tutte le sue implicazioni dalla sinistra, se non vuole collaborare con i suoi silenzi pavidi a questo disegno.
Qui si deve fare un duplice ordine di discorso, l’uno contingente e l’altro di più lunga gittata. Non è la prima volta che sotto i colpi dei tagli finiscono benemerite istituzioni culturali. I tagli che il mai abbastanza deprecato Ministro dei Beni culturali e poeta di corte Bondi (a proposito chi è l’attuale Ministro dei Beni Culturali? A chi se lo ricorda un premio) subì qualche tempo fa dal vero Ministro dei Beni Culturali e delle Scuola e dell’Università , ossia Giulio Tremonti, colpirono istituzioni di fama come l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ed altri. È chiaro che non si tratta di sola insipienza ma di un disegno cosciente che parte da una visione della cultura come attività  del tempo libero da tagliare di fronte alla serietà  della crisi.
E qui viene il discorso di più lungo periodo: tagliare la cultura significa ipotizzare un modello di sviluppo a bassissima innovazione scientifica e tecnica, centrato sul predominio del capitale finanziario e parassitario e su una composizione sociale di netta separazione tra le classi sociali e di distruzione delle istituzioni educative pubbliche. Al di là  delle indignazioni siamo sicuri che un modello di università  e di ricerca tutto privatistico ed efficientistico non sia altro che la punta dell’iceberg di una società  così modellata. Allora la sinistra, a partire dalla visione dell’intero processo conoscitivo come bene comune, deve tutelare istituzioni basate sulla ricerca e sulla promozione della lingua come patrimonio individuale e collettivo di creatività  e di democrazia.
A proposito, la Crusca si è accorta che anche la tonalità  degli italiani è cambiata e non siamo più la terra dove il sì suona ma dove tutti parlano con la velocità  e l’affermatività  perentoria dei venditori? Torniamo a parlare lentamente per ritrovare attraverso «la dichiarazione comune e scambievole dei nostri pensieri la comunione delle nostre volontà ».
* Docente di Letteratura Italiana Università  di Napoli


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