Salvare delle vite umane in mare non può costituire un reato

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 Giustizia è fatta, anche se dopo quattro anni e non poche sofferenze per i due pescatori tunisini protagonisti di questa vicenda. Aubdelkarim Bayoudh e Abdelasset Zenzeri sono stati assolti ieri mattina dalla Corte di Appello di Palermo. In primo grado erano stati condannati a due anni e 6 mesi per «resistenza a nave da guerra e pubblico ufficiale». La loro colpa? L’8 agosto del 2007 avevano soccorso 44 persone a bordo di un gommone che imbarcava acqua. Li avevano incrociati a 32 miglia a sud di Lampedusa. Tra i migranti c’erano anche due donne incinte e due bambini, di cui uno paraplegico. Il mare era forza 9. Nessuno, che si trovava sulle altre navi fino ad allora incrociate, si era preso cura di loro. Sarebbero morti tutti, come hanno raccontato i migranti sentiti come testimoni. Avrebbero dovuto essere, almeno, ringraziati quei pescatori. Invece l’Italia li ha denunciati, additandoli prima come scafisti, e poi – comunque – come «disobbedienti».

L’8 agosto, infatti, tanto la capitaneria di Porto di Lampedusa che la Marina militare avevano negato l’ingresso in Italia ai due pescherecci. Gli veniva chiesto di ritornare in Tunisia, con il loro carico umano. Fu inviata una nave della Marina militare per controllare la situazione dei naufraghi. Il medico di bordo disse che la situazione non era drammatica, anche se durante il processo si scoprì che era salito a bordo di un solo peschereccio e senza contare un dato di fatto: che appena le di navi attraccarono a Lampedusa, quattro persone furono trasportate con l’elisoccorso all’ospedale di Palermo. «Leggeremo le motivazioni, ma i due pescatori sono stati assolti perché quello che hanno fatto non costituisce reato, hanno agito per porre fine a uno stato di necessità », dice Leonardo Marino, che insieme a Giacomo La Russa ha difeso i tunisini, nonostante avessero avuto al peggio nel primo grado di giudizio. D’altronde la sentenza di primo grado era davvero illogica: caduta l’accusa «principe», e cioè il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a fini di lucro, era sembrato a tutti poco coerente che i pescatori venissero condannati per aver disatteso a un ordine evidentemente sbagliato.
Non si trattava di scafisti – come sospettava la Capitaneria di Porto – ma di semplici pescatori che avevano obbedito alla legge più vecchia del mare: salvare persone è la priorità , qualsiasi cosa accada. «Le associazioni si augurano che dannosi e paradossali processi come quello che ha coinvolto i pescatori tunisini non vengano più avviati, a garanzia dello stato di diritto e delle convenzioni del mare. Riteniamo che nessuno debba essere incriminato per avere adempiuto ad un obbligo di legge, oltre che ad un dovere etico», scrivono la sezione siciliana dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione e Borderline Sicilia.
Alla fin fine, Zenzeri e Bayoudh sono stati le «vittime sacrificali» di un gioco politico più ampio, condotto con pochissimi scrupoli: l’Italia voleva portare a casa una sentenza che indebolisse quel principio – finora intoccabile – che è la proprità  assoluta del salvataggio delle vite umane in mare rispetto a qualsiasi altra considerazione. Quel processo è stato la prova generale dei respingimenti che, poi, sono stati realizzati senza tante sottogliezze dal ministro dell’interno leghista Roberto Maroni. Il quale, però, dovrà  fare i conti con una verità  che la giurisprudenza ha ribadito una volta di più: salvare vite umane in mare non è reato.


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