Una condivisione circuito per circuito

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Nei giorni scorsi si è svolta a New York la seconda edizione dell’Open Hardware Summit, giornata di conferenze sullo strumentario «aperto». Se le parti elettroniche, meccaniche e magnetiche che permettono il funzionamento di un computer sono costruite in maniera «aperta», i pezzi risultano interscambiabili tra loro, le macchine sono riparabili da chiunque lo sappia fare e non solo da tecnici certificati dalla casa di produzione e questo migliora l’esperienza degli utilizzatori, permette la concorrenza in un mercato altrimenti monopolizzato dalle grandi case costruttrici. L’esempio più antico è quello del motore a scoppio che, se non fosse stato costruito in maniera aperta, gli unici in grado di ripararlo sarebbero stati i fabbricanti di automobili e non sarebbe esistita la professione del meccanico.
I componenti elettronici si sono miniaturizzati e il loro utilizzo ha pervaso la vita quotidiana. Nessuno può più dire di «non usare il computer» a meno che davvero non utilizzi neanche un telefonino e il bancomat o che viva in una comunità  di luddisti. I vantaggi della comunità  nel gestire e nel non essere gestita dalla tecnologia sono evidenti.
La definizione di «Hardware a Sorgente Aperta» è la seguente: «i materiali i cui disegni sono pubblicamente disponibili per lo studio, modificabili, distribuibili e realizzabili da chiunque voglia farlo. Questo massimizza la possibilità  per i singoli di fare ed usare l’hardware, garantendo così la libertà  di controllare la tecnologia e la condivisione della conoscenza».
Nella giornata del Summit, la teoria ha però lasciato spazio alla pratica. L’obiettivo del Summit, infatti, non è solo quello di comunicare al pubblico l’importanza degli standard aperti per una società  migliore, ma dare la possibilità  a gruppi di persone di produrre oggetti elettronici a sorgente aperta.
Le conferenze si sono svolte all’interno della «New York Hallof Science», monumentale museo della tecnica nel quartiere del Queens, e sono state divise in quattro sezioni: Commercio, Legge, Produzione, Comunità  ed Educazione. Alla fine della giornata si sono svolti dei breakout, piccoli gruppi che si sono ritrovati per seguire praticamente e in dettaglio un progetto. Non sono mancate presentazioni di prototipi legati all’attualità . Ad esempio, il recente disastro ecologico della British Petroleum ha dato lo spunto per la costruzione di una barca-drone a vela in grado di pulire gli oceani dalle macchie di petrolio; la catastrofe nucleare Giapponese ha invece suggerito invece il bisogno di avere con sé un contatore geyser a basso costo.
Anche in ambito medico il bisogno di avere a disposizione «Materiali Aperti» è ben visibile: Eyewriter è una protesi per l’interazione uomo-macchina tramite i movimenti oculari. Si tratta di uno di quei casi (come anche i software per i non vedenti) dove i prodotti esistenti, data la scarsa domanda del prodotto, sono di qualità  scadente. È stato presentato il caso dell’artista graffitista Tempt, il quale dopo un incidente è immobilizzato a letto, e utilizza oggi il sistema Eyewriter per parlare, scrivere e soprattutto disegnare, che nel suo caso equivale a lavorare, tramite i movimenti degli occhi.
Nel summit hanno suscitato entusiasmo le stampanti 3D, che, facendo colare un sottile filo di plastica calda, sono in grado di realizzare oggetti in plastica: tazze, statuette, busti, bambole ma anche una piccola protesi per fissare un microfono alla telecamera, come realizzato da un ragazzo venuto dall’Italia per partecipare al Summit.
La stragrande maggioranza di queste invenzioni sono basate o contengono al loro interno i microcontrollori italiani Arduino realizzati ad Ivrea. Massimo Banzi, co-fondatore di Arduino, sostiene che è straordinario l’entusiasmo che riscuote Arduino, tenuto conto del fatto che i prodotti italiani nell’elettronica non hanno esattamente un’ottima fama. Questo è dovuto alla comunità  forte che Arduino ha saputo creare. L’Italia ha bisogno di muoversi, e Arduino è una tecnologia abilitante. A Torino è stato realizzato un FabLab, un piccolo laboratorio dotato di una serie di macchine controllate da computer che permettono di fabbricare quasi tutto; qui vengono realizzati corsi di assemblaggio e programmazione. «Vorremmo farlo continuare, e magari aprirne uno nuovo in un’altra città . Fabbricare digitalmente non è impossibile».
Andrews «Bunnie» Huang di Chumby Industries ha spiegato come il rallentamento della Legge di Moore – «Le prestazioni dei microprocessori, e il numero di transistor ad esso relativo, raddoppiano ogni 18 mesi» – sia una buona cosa per i costruttori singoli. Oggi sarebbe impensabile costruire un telefonino o un tablet perché una volta trascorso il tempo per costruirlo, sarebbe già  obsoleto, ma quando il ciclo di Moore si sarà  fermato, assisteremo a una nuova attitudine verso l’elettronica di consumo e alla nascita di una nuova cultura della riparazione. È bello che una volta tanto ilfuturo non prometta solo disastri.
Il congresso è terminato con il premio per gli studenti: «un modo per restituire alla comunità  il denaro ottenuto dall’incasso dell’anno scorso», dice Alicia Gibb, organizzatrice e co-fondatrice del Summit. Il premio di 2000 dollari è andato agli inventori di Bitponic, un sistema casalingo di monitoraggio di idrocoltura (luce, umidità , temperatura, Ph ecc) che trasmette i dati via WiFi e permette il controllo delle pompe. Un sistema per innaffiare le piante mentre si è lontani da casa, tramite il telefonino. L’idea è buona, e l’hardware aperto ne permette la realizzazione anche a degli studenti.


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