Democratici spaccati in tre sul piano di Confindustria

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ROMA — E ora? Ora che il centrosinistra potrebbe essere chiamato a governare, quello schieramento sembra presentarsi all’appuntamento come un’orchestra in cui ognuno va per conto suo, con il proprio strumento: non c’è nessun accordo tra i suoni, prevalgono dissonanze e disarmonia.

All’inizio è stata l’Europa a dividere l’opposizione. C’era infatti un tempo, in verità  non troppo lontano, in cui il centrosinistra chiedeva al governo Berlusconi di «fare come l’Europa». Ma dopo che la Bce, con una lettera, ha indicato all’Italia la strada per uscire dalla crisi, quell’ansia europeista si è affievolita. Sel e Idv hanno immediatamente sparato a zero contro le misure proposte dalla Banca centrale. Il Partito democratico non ha risposto con voce unanime. Il suo responsabile economico Stefano Fassina ha sostenuto che quella lettera «non funzionava»: le misure lì previste per la maggior parte non erano di gradimento del Pd. Il vice segretario Enrico Letta, invece, ha accolto con soddisfazione una missiva che secondo lui stimolava il partito ad avere finalmente «il coraggio di lasciarsi alle spalle i tic ideologici del passato»: «Ci pone — è il suo ragionamento — davanti a una svolta: crescere e farci definitivamente una forza riformatrice e di governo, oppure accontentarsi di quel che si è già , rifugiandosi nella conservazione e nello sterile presidio di uno spazio politico e di un non meglio identificato elettorato di riferimento».

L’Unità , quotidiano del Pd, per dirla con Beppe Fioroni, «si è espressa su quella lettera della Banca centrale con maggior durezza del manifesto». L’economista Francesco Boccia, deputato della maggioranza interna, al contrario, ha ammonito a «non ignorare» le linee indicate dalla Bce: «Significherebbe mettere la testa sotto la sabbia, seguirle, invece, inciderebbe sul futuro dei nostri figli». Insomma, l’ennesima divisione all’interno del Pd.

Dopodiché è arrivato il Manifesto della Confindustria. Il segretario Pier Luigi Bersani ne è rimasto entusiasta, tant’è vero che ha in programma un incontro con i vertici dell’associazione: «Vi sono molti punti in comune tra il nostro programma e il loro». La presidente Rosy Bindi si è mostrata più cauta. Ha detto qualche sì, un forse e un mezzo no: «Bene la patrimoniale e la lotta all’evasione, sulle privatizzazioni ci vuole prudenza, e, per quanto riguarda le pensioni, va fatta una riforma per aiutare i giovani e i precari, ma non per farci cassa». Il senatore Vincenzo Vita, che rappresenta l’ala sinistra del Partito democratico, si è mostrato assai meno accomodante: «Quella di Emma Marcegaglia non è una buona proposta: è pesante sulla spesa sociale e sulle pensioni. Non può essere il programma del dopo-Berlusconi».

Questo per quanto riguarda il Pd, che si è quindi diviso in tre. Ma il resto della sinistra non è più unito. Per Italia dei Valori ha parlato Mauro Zipponi, l’esperto di Di Pietro in materia. Lui è prudente ma non chiude la porta: «È un fatto positivo che quell’area di imprenditori che fa capo a Confindustria e che aveva sostenuto Berlusconi ora si allontani dal premier. Ma in quel Manifesto non c’è un cenno di autocritica, e questo non va bene. E poi non vorrei che si cominciasse con una campagna ideologica sulle pensioni: evitiamo». Insomma, un «nì». Che diventa un no quando a parlare è Franco Giordano di Sel: «Quel documento non può essere certamente giudicato in modo positivo. È aperto a delle evoluzioni negative: l’attacco alle pensioni e allo Stato sociale. Vogliamo dirci la verità ? La Confindustria ripropone un orizzonte vecchio e ripetitivo». E Nichi Vendola, leader di Sinistra ecologia e libertà , ricorda che «gli imprenditori prima erano con Berlusconi». Come a dire: vi siete svegliati adesso?

Dunque, se oggi fosse al governo, il centrosinistra nella versione del nuovo Ulivo Pd-Idv-Sel faticherebbe non poco a trovare la quadra. Il che non stupisce un ex Democrat come il senatore Nicola Rossi. A suo avviso sia «i governi di centrodestra che quelli di centrosinistra sarebbero incapaci di assumere i provvedimenti che andrebbero presi subito. Qualunque sia il colore degli esecutivi c’è sempre qualcuno che li tiene in ostaggio». Nel caso di Berlusconi è la Lega, nel caso di un eventuale governo di centrosinistra «le resistenze al cambiamento verrebbero da Sel e da alcuni settori del Pd».

Un’analisi troppo dura? Non parrebbe. Anzi. Potrebbe addirittura sembrare eccessivamente morbida se si guardasse a quello che sta avvenendo dentro Sel. Oliviero Diliberto e Paolo Ferrero avevano già  detto che si sarebbero volentieri aggregati agli altri per battere il centrodestra, ma avevano premesso che, in caso di vittoria elettorale, non sarebbero «entrati nel governo». Per il movimento di Vendola non sembrava porsi una simile questione. Si sapeva che non tutti i dirigenti smaniavano dalla voglia di tentare l’avventura governativa, ma questi mal di pancia finora non avevano destato grandi preoccupazioni. Ora, però, è Fausto Bertinotti, la cui parola è ancora molto ascoltata dentro Sel, a porre delle obiezioni. Per l’ex presidente della Camera questa è l’ora della «rivolta sociale» e non del governo: «Nessun riformismo — né borghese né di sinistra — è capace di diventare soggetto politico consistente nella crisi del capitalismo finanziario globalizzato». Spiega Bertinotti al settimanale online «gli Altri» che in questa situazione «il governo come commissione d’affari della borghesia diventerebbe un’inquietante realtà » e la sinistra rischierebbe di «diventare un ente pressoché inutile». E allora è il momento di «aprire una radicale lotta politica», accompagnando «i movimenti che respirano l’aria della rivolta, la quale è la sola che può contribuire alla resurrezione della sinistra». Parole, queste, che non sono esattamente un buon viatico per un futuribile governo Pd-Idv-Sel.


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