Etnofood, se le città  dicono no

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Vietare i kebab nei centri storici per motivi di sicurezza è di destra, ma se serve a salvare il made in Italy è di sinistra. Bisogna prendere in prestito la prosa di Giorgio Gaber per cogliere l’aspetto trasversale della battaglia in atto contro i ristoranti etnici, per tenerli lontano dai “salotti” turistici delle città . Negozi di kebab, appunto. Ma anche sushi bar, fast food americani, pub irlandesi, ristoranti cinesi e cucine etniche varie. Una battaglia di stampo leghista, sperimentata in nome della «difesa dell’ordine pubblico e della lotta al degrado» a Bergamo, Pavia, Cittadella, e in altre roccaforti verdi. Ovunque accusata di avere delle motivazioni xenofobe e dei metodi illiberali. Eppure adottata di recente anche da giunte di centrosinistra, seppure col distinguo del «lo facciamo per proteggere la bellezza e i prodotti tipici delle nostre città ».
Suscitando ugualmente accuse di razzismo da parte degli immigrati, la perplessità  dei commercianti e una domanda: se New York o Londra avessero imposto divieti simili, cosa ne sarebbe stato della miriade di pizzerie al taglio aperte dagli emigranti italiani?
A Forte dei Marmi, ad esempio, ci sono italianissime gelaterie che per una coppa tre gusti sfilano al villeggiante almeno una decina di euro, ma è impossibile trovare il panino kebab da tre euro, preparato alla turca con la carne d’agnello arrostita. Il sindaco Umberto Buratti, eletto in una lista civica del centrosinistra, ha imposto in centro e sul lungomare, cioè negli unici posti dove girano i turisti, il divieto assoluto di aprire qualsiasi locale che non proponga la cucina tradizionale italiana, ancora meglio se versiliese. Quindi spaghetti allo scoglio sì, involtino primavera no.
Un divieto preventivo, visto che non esistono ristoranti etnici a Forte dei Marmi. Buratti, per spiegare, la butta sul latino. «Bisogna recuperare il genius loci – dice – la tipicità  della nostra realtà . Esistono tanti non luoghi nel nostro paese come gli aeroporti e i fast food, tutti uguali, senza identità . La nostra decisione, presa in consiglio comunale all’unanimità , protegge i prodotti enogastronomici locali. Perché un turista dovrebbe venire al Forte a mangiare la paella o il kebab?». Forse per risparmiare. O forse perché fa parte di quel 19 per cento di italiani che almeno una volta al mese sceglie di andare a pranzo o a cena in un locale esotico, come fotografa la ricerca della Fondazione Leone Moressa di Venezia. E cosa sceglie? Quasi la metà  finisce a mangiare pollo al limone e gelato fritto nei ristoranti cinesi, il 16,2 per cento ama il giapponese, il 15,1 impazzisce per i piatti speziati messicani. Dubbi che non sfiorano Buratti, interessato di più al rischio di cozzare contro l’articolo 3 della Carta, quello che garantisce a tutti i cittadini pari dignità  sociale e uguaglianza di fronte alle leggi. «Ma non abbiamo esteso il divieto a tutto il territorio comunale, quindi non possono dire che violiamo la legge».
La giunta del rottamatore del Pd Matteo Renzi, a Firenze, ha spostato ancora più in alto l’asticella dell’autarchia. Dopo aver bloccato la concessione di nuove licenze per fast food, Internet point e negozi etnici in centro, chiederà  ai mercatini turistici di togliere dai banchi souvenir e gadget di fabbricazione cinese o coreana. Cioè il famoso grembiule con il David nudo e la scritta “I love Florence”, prodotto di punta della inesauribile fabbrica low cost cinese, in futuro si potrà  acquistare solo se cucito da qualche azienda italiana. «Ma siamo sicuri che ci siano imprese disposte a fare quello che adesso fanno le aziende cinesi o le altre straniere? – si chiede Esmeralda Gianpaoli, presidente nazionale di Fiepet Confersercenti – il “brand” italiano, soprattutto nell’enogastronomia, non si difende nella dimensione locale con provvedimenti a “macchia di leopardo”. Semmai servono decisioni di sistema, a livello nazionale». E poi ricorda: «Dietro ai ristoranti etnici ci sono imprese, che corrono gli stessi rischi delle nostre e non fanno, a quanto ci risulta, concorrenza sleale. Allontanarle dalle zone più frequentate di una città , significa procurare loro un danno in partenza. I consumatori sanno distinguere tra un kebab e un panino con la italica porchetta. Decidono loro dove mangiare».
In effetti la presenza etnica nel panorama della ristorazione in Italia ormai è consolidata. Su 245mila imprese e un fatturato complessivo di oltre 64 miliardi di euro, 38 mila sono gestite da stranieri. I locali che propongono piatti etnici sono 2500, il 75 per cento dei quali cinese. Il giro d’affari è intorno ai 200 milioni di euro all’anno, 80 milioni si fanno solo a Milano, la capitale dei kebab (circa 400 su un totale di 1200) e dei ristoranti cinesi. Un’esuberanza economica che però non ha fermato la Regione Lombardia dal far passare una legge che ha vietato la sistemazione di tavolini, sedie o panchine davanti agli esercizi dei venditori di kebab e di pizza al taglio. E il vice presidente regionale Andrea Gibelli, della Lega, ha scritto un progetto di legge dal nome evocativo, “Harlem”, per porre un freno alle licenze, giustificandolo con l’esigenza di evitare la nascita di quartieri ghetto.
Le associazioni di immigrati continuano a sostenere che siano provvedimenti illiberali, che violano la libertà  d’impresa. Rifiutano l’assunto di base della Lega Nord, secondo il quale attorno a questi locali si formano gruppi di soggetti pericolosi che producono degrado. Tanto che a Cittadella, nel padovano, il sindaco leghista Massimo Bitonci non concede più licenze ai negozi da asporto “take away” all’interno delle mura cittadine perché «questo tipo di licenze non è soggetto ai controlli preventivi di pubblica sicurezza». Decisione maturata quando sulla scrivania di Bitonci è arrivata, per la prima volta, la richiesta di un immigrato turco di aprire aprire una kebab house.
«È triste vedere che il centrosinistra insegue la Lega proprio sul suo terreno – dice Marco Wong, direttore editoriale di ItsChina – in realtà  sono provvedimenti strumentali, non servono a niente se non a guadagnare il consenso di una piccola parte dell’elettorato. Oltretutto sono divieti che contrastano con la cultura italiana, formatasi negli anni con i contributi di più etnie. Così si limita solo lo sviluppo delle imprese degli immigrati e non si difende veramente il made in Italy».
Una svolta che non dovrebbe stupire troppo, visto che il primo provvedimento del genere, prima ancora di quelli emanati a Capriate San Gervasio (agosto 2009, «per esigenze di ordine pubblico»), Ceriano Laghetto a Monza (gennaio 2010, bloccate le attività  commerciali legate agli stranieri), Pavia (settembre 2010, stop all’apertura di kebab e macellerie islamiche «per problemi di degrado urbano»), Cittadella (agosto 2011), è nato a Pistoia nel 2007, da un’idea del sindaco di centrosinistra Renzo Berti, tuttora in carica. «Cambiammo il regolamento comunale solo per il comparto cittadino della Sala – ricorda oggi Berti – il cuore longobardo della città . Così lo abbiamo reso un presidio di alta qualità , ridando fiato all’economia artigiana locale. Un fast food o un ristorante cinese in quella zona sarebbe stato un cazzotto in un occhio. È un provvedimento che non si adatta alle grandi città , funziona solo per piccoli quartieri. Alcuni nostri elettori ci accusarono di essere discriminanti, ma noi non lo facemmo per questioni ideologiche o per finte esigenze di sicurezza. Oggi posso dire che la nostra scommessa è stata vinta».


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