I Nocs violenti e i misteri del caso Soffiantini “Tutti in azione nel blitz dell’agente ucciso”

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Due morti, un suicidio, un pestaggio e un fascicolo insabbiato. Non erano solo nonnismo i morsi nella caserma dei Nocs denunciati da Repubblica a inizio settembre. Dietro quelle violenze ci sarebbe qualcosa di più: una sorta di patto di sangue che fu stretto tra una manciata di teste di cuoio e i loro dirigenti in una notte di ottobre di 14 anni fa.
Quella in cui morì l’agente speciale Samuele Donatoni durante un blitz per liberare l’imprenditore Giuseppe Soffiantini dai suoi sequestratori. Quella notte, tra i pruni e le ginestre insanguinate sul ciglio dell’autostrada Roma-Pescara, vicino a Riofreddo, prima dell’arrivo dei soccorsi e della polizia «ordinaria», con il rumore degli spari ancora nelle orecchie e il loro collega a terra agonizzante, quegli agenti si guardarono in faccia per qualche interminabile secondo, poi decisero che mai nessuno avrebbe raccontato cosa era successo. Nemmeno ai magistrati, a cui avrebbero offerto una versione preconfezionata. Un accordo di ferro, che negli anni è degenerato, lasciando nella mani di «chi sa» un potere abnorme all’interno dei Nocs: e così oggi quegli uomini sono ancora tutti lì, nel reparto d’eccellenza della polizia di Stato, dove dettano, indisturbati, la propria legge.

La notte della tragedia

Il 17 ottobre del 1997, nel pieno del sequestro Soffiantini, la polizia tenta un blitz per la cattura dei rapitori attraverso un finto pagamento del riscatto. L’operazione fallisce. Uno dei banditi, Mario Moro, al momento di prendere le valigie con i soldi, sente un fruscio, almeno così racconterà , ed esplode una raffica di kalashnikov, alla cieca. I Nocs rispondono al fuoco ma i sequestratori gettano le armi e fuggono. A terra rimane l’agente Samuele Donatoni; morirà  dissanguato in pochi minuti.
Per quel fatto, oggi, esistono due verità . La prima è quella arrivata al termine del processo istruito dal pm di Roma, Franco Ionta, che nel 2000 condannò i 19 sequestratori di Soffiantini anche per l’omicidio (concorso morale) di Donatoni: il colpo mortale, secondo quel processo, sarebbe stato esploso dal kalashnikov di uno dei banditi.
La seconda sentenza è quella con cui la quarta Corte d’assise di Roma, presieduta dal giudice Mario Almerighi, nel 2005, ha assolto dallo stesso reato il ventesimo bandito (arrestato più tardi a Sidney e processato separatamente). In quel processo si stabilì in via definitiva che il proiettile che uccise l’agente Donatoni era stato sparato a bruciapelo e da dietro. Non da Moro, ma da qualcun altro (ancora oggi sconosciuto) che stava dalla parte dei Nocs. Fuoco amico. Questa seconda sentenza che, nonostante l’impugnazione del pm Ionta, venne confermata sia in Appello sia in Cassazione, arrivava anche all’inquietante conclusione che le forze dell’ordine operarono una sconsiderata attività  di inquinamento probatorio. Chi depistò le indagini sulla morte di Donatoni? Con quali appoggi?

Chi c’era?

Domande che andrebbero girate in blocco a “quelli del morso”, cioè al “sottocomando” che da anni con violenze fisiche e psicologiche detta legge all’interno della caserma dei Nocs. Perché, adesso che la notizia di quelle violenze è pubblica, adesso che la procura e la polizia hanno avviato le proprie indagini, si è scoperto che tutti i “membri” del “sottocomando”, quella notte erano a Riofrreddo. C’era, a esempio, l’agente Nello Simone, l’autore della fotografia con cui Repubblica ha documentato i morsi nella caserma. Fu proprio lui, dopo il conflitto a fuoco, a ritrovare il kalashnikov di Moro e fu proprio lui, secondo la quarta Corte d’assise di Roma, uno dei depistatori del primo processo, uno di quelli che dichiararono il falso in tribunale, smentito dall’unico testimone considerato attendibile: l’allora dirigente della Criminalpol Nicola Calipari (ucciso nel 2005 in Iraq durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, anche lui per mano del fuoco amico).
Insieme a Nello Simone sull’autostrada c’era poi l’agente Roberto Miscali: l’uomo che nel momento cruciale del blitz si trovava più vicino a Donatoni. Anche lui, oggi, è uno del gruppetto fuori controllo. Secondo molti testimoni (ci sarebbe anche un video) Miscali è il protagonista di uno degli episodi più surreali della banda del morso: quello in cui alcuni Nocs hanno pestato a sangue un agente ricoverato in ospedale, perché non aveva reso onore al nome del reparto; era intervenuto per sedare una rissa in discoteca e aveva rimediato una coltellata.
E ancora, quella notte di 14 anni fa, sulla strada per Riofredo c’erano l’ispettore Vittorio Filipponi, anche lui vicino al “sottocomando”, e a bordo dell’automedica pronto a intervenire c’era persino il dottor Gianluca Magliani: il medico che ha dato un solo giorno di prognosi all’agente che, pestato dal gruppo nel 2009, ha denunciato a Repubblica le violenze in caserma (e che, visitato da un altro medico venne giudicato guaribile in 108 giorni).

Il ruolo del capo

I protagonisti dei morsi erano tutti là , quella notte, dunque. Tutti tranne uno: il capo del “sottocomando”, Fernando Olivieri. Anche lui però ha più di qualcosa a che vedere con quanto accadde a Donatoni. E non solo perché fu proprio lui a svuotare l’armadietto del collega ucciso, pur non essendo uno dei suoi più stretti amici. Ma anche perché pochi giorni dopo la notte di Riofreddo, insieme ad altri agenti, fermò in una galleria della Roma-L’Aquila una macchina con alcuni dei sequestratori. Tra questi, Mario Moro. Il bandito venne ferito da numerosi colpi d’arma da fuoco e morì pochi giorni dopo. In un processo per altra causa uno dei sequestratori, pentito e ritenuto attendibile dai giudici (nonostante le sue parole non fossero utilizzabili per motivi procedurali), raccontò: «Fu una vera esecuzione: eravamo a terra tramortiti e i Nocs continuarono a sparare». La versione ufficiale parla di una non meglio precisata reazione da parte dei banditi. Moro morì dopo aver ammesso ogni responsabilità  nella vicenda Soffiantini. Tranne una: quella dell’omicidio Donatoni.

Il suicidio e i sospetti

La domanda che in queste ore ha ricominciato a tormentare gli uomini incaricati dal capo della Polizia Antonio Manganelli di indagare sullo strapotere del “sottocomando” e su quanto accade all’interno della caserma di Spinaceto è dunque questa: quali segreti custodiscono Olivieri, Simone e gli altri per aver potuto trasformare la caserma nel proprio regno? Chi, o cosa coprono? Domande tanto più inquietanti quanto più si considera il livello di copertura di cui questi agenti hanno goduto. Basti pensare che poco prima della denuncia dell’agente pestato nella mensa, il “sottogruppo” aveva preso di mira un altro poliziotto che aveva osato ribellarsi a quei sistemi, Paolo Di Carli. E anche in quel caso era finita con un violento pestaggio di cui le relazioni interne indicavano come “protagonista assoluto” Fernando Olivieri. Di Carli tenne tutto dentro e pochi mesi dopo si suicidò, sparandosi un colpo al cuore in caserma. In sintesi: Olivieri pesta due persone, una si suicida l’altro fa denuncia. I vertici nel primo caso fanno finta di niente, nel secondo puniscono il denunciante. Perché?

Il fascicolo fantasma

Una risposta potrebbe essere contenuta nel fascicolo nato dalla sentenza della quarta Corte d’assise del 2005. Il giudice Almerighi infatti rimandò gli atti alla procura di Roma affinché ricominciasse l’inchiesta, partendo da chi depistò indagini e processo. Di quel fascicolo non si sa più nulla. O quasi. Quel che si sa è che, il procuratore capo lo affidò, con una scelta insolita, proprio a Ionta e che questi, pochi giorni prima di passare al Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (su proposta del ministro Alfano) ne chiese l’archiviazione. Oggi, a distanza di tre anni dalla richiesta, di quel procedimento non vuole più parlare nessuno. angeli


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