Kabul, la strage degli americani

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Alle 11,30 di ieri mattina un fortissimo scoppio ha fatto tremare il centro di Kabul, uccidendo tredici americani e aggiungendo nuove inquietudini sul futuro dell’Afghanistan dopo il ritiro completo delle truppe della Nato e del Pentagono previsto per il 2014.
Guidato da un kamikaze e riempito con 700 chili di tritolo, un Suv Toyota si è andato a schiantare a tutta velocità  contro un “Rhino” (Rinoceronte), come vengono soprannominati gli enormi autobus blindati della Nato, che in quel momento stava trasportando un gruppo di soldati lungo Darulman, una delle strade più trafficate del centro, verso una base nella periferia della capitale. L’esplosione è avvenuta proprio di fronte alla American university. Il Rhino si è piegato su un fianco ed è stato avvolto da una palla di fuoco e di fumo nerissimo, causando la morte di una ventina di persone, tra cui almeno quattro passanti e tredici americani.
La carneficina è stata subito rivendicata con un sms dal portavoce dei Taliban, Zabiullah Mujahid. Si è trattato dell’attentato più sanguinoso a Kabul negli ultimi dieci anni di guerra e del più grave in termini di vittime della Nato se si escludono gli abbattimenti in cielo degli elicotteri dell’Alleanza, tra cui quello del 6 agosto in cui morirono 30 Seals, dello stesso reparto che portò a termine il raid in Pakistan contro Osama Bin Laden.
Secondo gli esperti militari, l’autobomba di ieri – che segue di sei settimane le azioni contro l’ambasciata degli Stati Uniti e l’assassinio dell’ex presidente Rabbani incaricato delle trattative segrete con i Taliban – conferma un cambiamento di strategia da parte dei guerriglieri islamici. Trovandosi in difficoltà  nelle aree rurali, dove la martellante offensiva degli alleati sta avendo un certo successo, i ribelli punterebbero su azioni terroristiche in modo da tenere alta la tensione mentre comincia il ritiro degli stranieri.
Sempre ieri, del resto, una giovane donna-kamikaze coperta dal burqa si è avvicinata agli uffici del governo nella città  orientale di Asadabad. Gli agenti dei servizi segreti afgani l’hanno vista in tempo e, uccidendola, hanno evitato che l’attentato suicida avesse conseguenze più gravi: sono rimaste ferite solo quattro persone. Più a sud, invece, nella provincia di Kandahar, una recluta afgana ha improvvisamente aperto il fuoco contro un gruppo di istruttori militari australiani, uccidendone tre prima di essere lui stesso colpito a morte.
L’escalation di attentati non influirà  – assicurano gli americani – sul calendario del ritiro. Già  dalla prossima settimana, nel corso di una conferenza regionale a Istanbul, il presidente Hamid Karzai dovrebbe annunciare il passaggio delle consegne dalla Nato alle truppe afgane di diciassette aree del paese, di cui sette province del Nord, che appaiono le più tranquille. Ma anche in altre zone ci si prepara alla staffetta.
In un reportage da Kandahar, il Washington Post ha rivelato ieri che, nel quadro del ritiro di 10mila unità  del contingente americano dal paese entro la fine dell’anno, ordinato da Barack Obama, il Pentagono comincerà  presto a spostare le truppe dal centro della città , che è sempre stata una roccaforte dei Taliban, verso basi nell’immediata periferia, abbassandone il numero complessivo. L’obiettivo, ha spiegato il generale Curtis Scaparrotti, vice comandante delle truppe americane, è di «ripetere a Kandahar lo schema adottato a Kabul»: in pratica rendendo meno visibile la presenza delle forze della Nato, senza rinunciare però alla possibilità  di rapide azioni per contrastare i guerriglieri. Ma molti cittadini di Kandahar hanno paura che la mossa si traduca in una recrudescenza dei Taliban.


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Vengono dall’Olanda, dalla Svezia o dalla Gran Bretagna. Oppure dai Balcani. Raggiungono la Siria attraverso il corridoio jihadista nato durante la crisi in Iraq e poi si uniscono alle formazioni ribelli. I rapporti più recenti sostengono che sono almeno 800 i volontari europei che combattono contro il regime. Circa il 7-11 per cento del totale degli stranieri, in maggioranza provenienti dal mondo arabo.

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