Quando tuo figlio non è come gli altri

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Il termine «diverso» sembra un eufemismo che nega la diversità  specifica che è l’handicap. La visione caritatevole ingloba l’handicap nella categoria generale dei «poveri» (secondo i testi antichi) o dei «diversi» (come si dice oggi per non ferire nessuno): è importante interrogarsi su come quella differenza, che è un deficit incrociato (al crocevia di un corpo e di una società ), esponga coloro che ne sono portatori e coloro che li accompagnano a un’esclusione senza paragoni. Riguarda la capacità  di un essere vivente di dare un senso e di partecipare al patto sociale. Perché eccede ampiamente le «differenze» economiche, sociali, etniche, nazionali, religiose o razziali. Un giorno dovremmo ritornare sul discorso, se vorrai.
Restiamo per il momento sull’immagine, che sembri condividere, del desiderio materno: non mi sono riconosciuta neanche in quella. Non più di quanto mi sia riconosciuta nelle sconvolgenti affermazioni delle madri giunte da zone difficili, che ho ascoltato parlare mercoledì, al forum del cese, in occasione della Giornata delle donne maltrattate, dove hanno annunciato che nel 2010 la «violenza sulle donne» è diventata nel nostro paese una «causa nazionale». Nonostante la loro ribellione le partecipanti avevano interiorizzato a menadito quel che la società  domanda ai genitori, e ancor più alle madri: riuscire a ottenere il posto migliore nel «sistema», un sistema fatto di «posti» e non di singole persone. Mi è venuto in mente Céline: «Il proletario è un borghese fallito». «Vogliamo che i nostri figli abbiano successo, ottengano quel che noi non abbiamo potuto avere e fare», diceva in buona sostanza una di quelle donne. Applausi scroscianti in sala. Non ero assolutamente in sintonia, avrei detto piuttosto: «Amo mio figlio così com’è, vorrei aiutarlo a scoprire i suoi desideri e a realizzarli secondo le sue possibilità ».
Due maniere di essere madre? Ma cos’è una madre? Mi pare questa la prima domanda da porci prima di chiederci: che cos’è una madre di un portatore di handicap?
Lo ripeto spesso, e ti prego di scusarmi: la securizzazione è l’unico approccio che sulla maternità  non fa un discorso diverso da quello del consumismo («ci sveniamo per comprare ai nostri figli tutto quel che desiderano»), della pediatria (la riparazione del corpo sostituisce la vita interiore) o, al limite, della pedopsichiatria (quando questa vita interiore si rivela troppo dolorosa e imbarazzante). E arrischio una semplice risposta.
La «madre sufficientemente buona» (parafrasando la chimera inventata dal più grande esperto moderno in materia, lo psicoanalista inglese Donald Woods Winnicott) è capace di spogliarsi della passione materna – vale a dire di svincolarsi dalla presa possessiva che una madre tende a esercitare sul «suo» figlio immaginario, facendolo oscillare tra il bambino-oggetto e il bambino-re – e pensare in tal modo dal punto di vista dell’altro. (…) Ma la madre di un bambino handicappato? Sento la tua impazienza. Ebbene, è la stessa cosa. Con la sola differenza, non da poco, che le occorre accompagnare, attraversare e tradurre l’incontro con l’irrimediabile differenza che è la menomazione.
Come può essere possibile? Piene di senso di colpa e di vergogna, ferite a vita, alcune crollano, si accusano di tutti i mali della terra. Altre abbandonano il bambino – raramente, ma capita. Restano altre tre possibilità . O la madre si rifiuta di sapere: non ammette, nel proprio intimo, il deficit neurologico, sensoriale, motorio ecc., di suo figlio, e si rinchiude in un fuori dal mondo a due, monade immaginaria e idealizzata che si trasforma ben presto in guerra senza via d’uscita con l’intrattabile realtà  sociale. Oppure la madre glorifica quel rifiuto fino a considerarlo un segno di elezione (abbracciando anche alcune credenze religiose) e cercando di trovare o creare una comunità  protetta, oasi di carità , dove suo figlio vivrà  tagliato fuori dall’ostilità  circostante, rassicurato dalla più sincera delle compassioni possibili che gli ordini caritatevoli prodigano da secoli. O ancora, quel deficit mette i due genitori (parleremo in un altro momento del padre, sei d’accordo?) di fronte alla propria vulnerabilità , alla sua profondità  sino ad allora ignorata.
Io sono come quella madre scioccata, stordita, che incontra la propria morte: sì, caro Jean, ho conosciuto momenti simili molto prima dell’arrivo di David e anche insieme a lui, e li ho chiamati una «dissociazione passeggera» (non dimenticare le virgolette!) per sottolineare due cose.
Per prima cosa, l’esperienza della nostra mortalità . Non parlo della morte astratta affrontata dalla filosofia («filosofare significa imparare a morire» ecc.); e neppure delle cure palliative che un giorno o l’altro noi, cittadini sempre più vecchi delle democrazie medicalizzate, dovremo subire volenti o nolenti. Ma del contatto simbolico, immaginario e reale, che un essere umano è capace di provare con la propria mortalità  in corso, per tutta la vita. Sì, la psicoanalisi ha scoperto che l’inconscio è non solo una messa in atto dei desideri (compresi i desideri di «successo»!), ma una messa in atto della distruzione di sé e dell’altro. Sì, il trattamento psicoanalitico di Freud e dopo Freud preferisce privilegiare la messa in atto dei desideri erotici nell’ascolto dell’inconscio. Tuttavia, col prodursi di certi traumi o disordini psicosomatici, si comincia a scoprire il posto centrale della mortalità  (distruzione e autodistruzione) nello psichismo dell’essere parlante, come pure il suo ruolo fondamentale nelle attività  creative, ad esempio l’arte e la letteratura. (…)
Madre di un disabile, cerco di non voltare le spalle alla mortalità ; la condivido, ne faccio parte, ed è soltanto a questa condizione che posso accompagnare la vulnerabilità . Sperando di favorire – con essa e attraversandola – lo sbocciare della creatività  in David. Lo so: per fortuna, paragonati ad altri i suoi problemi forse sono minori, e mio figlio trova posto in un mondo che noi (lui, suo padre e io) cerchiamo di rendere più generoso di «fioriture» per tutti. Ma – per essere giusta con lui e permettergli di realizzare le sue potenzialità  – non ho bisogno dello sguardo ingenuo che una madre dovrebbe portare sul «bambino piccolo», e ancor meno della voglia di farlo «riuscire» là  dove io ho fallito. Vivo con la sua incapacità , con quel che percepisco, provo e penso della sua vulnerabilità . E fino alla mortalità  che è sostanziale a quella vulnerabilità  come alla mia. (…)
E se non si potesse dire l’handicap diversamente da così: con una costellazione di pensieri che sbriciola discipline, norme e categorie, e sollecita l’infinito del pensabile? Evitando ogni etichetta: «tu sei qui», «io sono lì», «essere significa essere felici», «Bontà  di Dio»… Ma «vivendo l’handicap», per l’appunto, come una prova sovradeterminata e che sfida tutto quel che ci rinchiude in una convenzione («norma», «disciplina», «certezza», «successo»…) pretendendo di sapere cosa significhi UMANO.
Mi segui? Intendo dire che «vivere l’handicap» cercando di pensarlo per sventare la morte di coloro che ne sono afflitti (migliorando le loro condizioni di vita e sensibilizzando quanti se ne credono risparmiati), significa anche sfidare la metafisica. Contro le sue categorie, non è anche un’autentica «contentezza» per la vita del pensiero? E per la vita nel suo complesso?

(Traduzione di Alessia Piovanello)
© Donzelli editore


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