SIRI HUSTVEDT

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Siri Hustvedt è venuta a Pisa. È qui per presentare il suo ultimo romanzo, L’estate senza uomini (Einaudi, traduzione di Gioia Guerzoni). Terrà  anche un discorso alla Normale, introdotta dalla professoressa Lina Bolzoni, sul rapporto tra memoria, immaginazione e narrativa. La carriera di scrittrice di Siri Hustvedt è segnata da un episodio che le accadde qualche anno fa: ad una cerimonia per la commemorazione del padre, fu colta improvvisamente da una crisi, un tremore diffuso in tutto il corpo, inarrestabile e misterioso. Ha raccontato questa storia in La donna che trema (Einaudi). La sua passione per le neuroscienze inizia da lì, da quel buco nero, quell’inspiegabile assenza da sé. I suoi libri si nutrono di questa sua doppia anima, un’apollinea fiducia nella scienza e una resa all’oscurità  dionisiaca della creazione. Immedesimazione e ironia, commedia e pathos. Anche
L’estate senza uomini inizia con una donna, Mia, che va in pezzi. Boris Izcovich, il marito neuroscienzato, si è invaghito di una giovane collega. Le chiede una pausa nel loro matrimonio e Mia finisce in un ospedale psichiatrico. Per non doverla nominare, per non farla esistere con troppa dolorosa precisione, Mia chiama la ragazza
“Pausa”. E tutto il romanzo è un’unica lunga pausa, «lo sbadiglio tra l’inverno pazzo e l’autunno sano, un vuoto privo di eventi da riempire di poesie». L’estate in cui Mia lascia l’ospedale e poi Brooklyn e si trasferisce nel suo paesino natale. Dove tiene un corso di scrittura per ragazzine adolescenti e frequenta il circolo delle amiche della madre, la più giovane delle quali ha 90 anni. Ma è reale che uno possa avere una pausa dalla prova vita? Siri Hustvedt ride. È bellissima quando ride. Ha 57 anni, è alta e bionda. Dà  l’impressione di aver scoperto un segreto, un gioco di prestigio per ricomporre il mosaico della nostra fragilità . «Ovvio che non si può smettere di vivere e poi ricominciare, ma credo che ci siano momenti in cui si ha bisogno di ritirarsi in se stessi. Sono momenti in cui non succede quasi niente, tranne ricordare e immaginare.
L’estate senza uomini è quindi prima di tutto una riflessione sulla potenza salvifica dell’immaginazione ».
Ma i ricordi di Mia sono selettivi. Pensa al suo matrimonio, a quando era bambina, ma non a quello che le è successo quando il marito se n’è andato. Non mi piace ricordare quella pazza, dice Mia di se stessa, mi fa vergognare.
«Per un periodo sono stata volontaria in un ospedale psichiatrico. Facevo lezioni di scrittura ai pazienti. Ho capito lavorando con loro quanto può essere doloroso un crollo così violento. Soprattutto per la sua indecifrabilità . Chi era quell’alieno, quell’altro da me che gridava, si dibatteva o tremava? Come faccio a fare i conti con questa parte di me? Ricordare significa anche saper dimenticare. O reinventare. L’arte delle narrazione può essere definita come la capacità  di ricordare
quello che non è mai accaduto».
Perché si racconta una storia anziché un’altra? «Questo è il tema centrale della narrativa. Le storie sono delle apparizioni. Si può scrivere di qualsiasi cosa, si possono scrivere libri su sciami di zebre volanti che volano da un pianeta all’altro. Ma quanto è urgente? I grandi scrittori rispondono sempre a un’urgenza profonda. La fabula, come i formalisti russi chiamano il nucleo del racconto, ciò che non muta. C’è una sorta di “Ur-Narrazione”, che non chiamerei autobiografia in senso stretto, ma è una storia di autobiografia emozionale. In questo caso avevo finito di scrivere due romanzi il cui protagonista era un uomo (Quello che ho amato e Elegia per un americano). Ero stata per dieci anni nella voce di un maschio. Volevo tornare a essere una donna. Non ci sarà  nessun uomo in questa storia, ho pensato. E mi è arrivata questa voce, leggera, buffa. Non avevo mai scritto in maniera ironica, giocando coi doppi sensi». L’estate senza uomini è infatti, paradossalmente, una commedia. Mia non fa altro che piangere per tutto il libro ma non pensi mai a lei come a una che soffre sul serio. «Perché si prende in giro. Non volevo scrivere un diario della disperazione. Sopravvivere e tornare a vivere, è di questo che volevo parlare. Mia è una donna colta, che ha i mezzi per interpretare e anche superare il dolore. Legge Lacan, Derrida, studia la linguistica e ha confidenza con Merleau-Ponty, ma sa arrendersi di fronte alla forza dell’umano. E quando, all’incontro in cui le anziane signore analizzano Persuasione di Jane Austen, viene messa di fronte al bisogno del lettore di una semplice identificazione col personaggio, cede. Ed è quello che è capitato a me. Anch’io, adesso, sono molto più attratta dalla semplicità . In fondo se il lettore non riesce a identificarsi con i protagonisti, vuol dire soltanto che lo scrittore non ha fatto un buon lavoro». Nei suoi libri l’arte e l’invisibilità  sono due temi fondamentali, e sembrano l’una lo specchio
dell’altra. «È così. Moki, l’amico immaginario di Flora, ma anche mister Nessuno, l’uomo che appare dal nulla, come mittente di strampalate email. La mia agente mi aveva chiesto di spiegare, alla fine, chi diavolo fosse mister Nessuno. Ma io non ho voluto. Mister Nessuno è una proiezione di Mia, che appare in risposta alla sua solitudine. È una sorta di altro da lei, da lei stessa immaginato. Nello stesso modo l’arte non è un vero altrove, ma un altrove immaginario. L’invisibile e l’arte sono quello che manca. Qualcuno diceva che le persone per le quali il mondo non è abbastanza sono i filosofi, i poeti
e i lettori di romanzi». Faccio l’ultima domanda con un po’ di timore. So che non le farà  piacere ma mi appiglio a un piccolo gioco letterario che lei stessa fa nel suo romanzo. A un certo punto parla del libro di un famoso scrittore americano intitolato
La musica del caso. Senza citare il nome di questo scrittore, che è Paul Auster e che è anche suo marito. Le chiedo quindi cosa ha significato per lei, come artista, aver diviso tutta la vita con uno scrittore.
«La nostra è un’amicizia letteraria molto diversa da come viene percepita all’esterno. Quando ci siamo conosciuti, Paul non era ancora famoso come adesso. E, in un certo modo, L’estate senza uominiparla anche di questo. Del modo in cui, dall’esterno, viene percepito il rapporto tra un marito e una moglie che hanno uno scambio intellettuale così importante. C’è un po’ di rabbia, una rabbia genuina per una sorta di codificazione delle donne come intellettuali che trovo fasulla, e mi infastidisce. Pensi a Simone de Beauvoir. Tutto quello che scriveva, o diceva, veniva messo in relazione a Sartre. Forse lei non era arrabbiata, ma avrebbe dovuto. Accade anche a me. Le mie ricerche intellettuali vengono sempre attribuite a Paul. Nella coppia, sono io ad aver studiato Lacan per anni, sono io ad averlo iniziato alle sue teorie sul linguaggio e la psicoanalisi. Ma se Paul parla di Lacan in un’intervista, su Internet subito scrivono che è un esperto di Lacan. Anche se non è colpa sua, anzi. Lui è un femminista. È un mio grande supporter e della letteratura femminile in generale. I suoi scrittori di riferimento sono donne, Emily Brontà« e Emily Dickinson,
per esempio». Quali sono invece le artiste donne che hanno influenzato il suo di lavoro? «Sono molto interessata alle artiste visive, ho scritto molto su Louise Bourgeois, Kiki Smith. Amo Susan Howe, una poetessa americana che ha scritto un fondamentale saggio intitolato My Emily Dickinson. E uno dei libri più belli che ho letto negli ultimi anni è certamente Venivamo tutte per mare, di Julie
Otsuka».


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