Un eroe smarrito nell’Ungheria del ’56

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Fa credere si tratti di moda e non di arte. Ma anche il titolo originale, «Esposizione di primavera», tradotto sempre con correttezza lungo il racconto, inganna il lettore: insinua, a proposito della coppia protagonista, una centralità  della moglie Kati (immersa nel fervore operativo per l’appunto di una esposizione di primavera nel Palazzo dell’Arte, a Piazza degli Eroi, con cui in Ungheria, pochi mesi dopo il tremendo scossone dell’ottobre 1956, il regime in via di riconsolidamento vuol contribuire a calmare le acque). Al dunque invece è il marito, l’ingegner Gyula Fà¡tray, che con insistenza risulta «il nostro eroe» («il nostro eroe si sedette nella poltrona», «il nostro eroe si tolse il cappotto», «il nostro eroe si fermò col fiatone», «il nostro eroe cedeva quasi sempre alla moglie» e, quando diceva, diceva: «Be’, sì»). È infatti il suo punto di vista il filo conduttoredi questa interessante narrazionestorica che si prova a parlarci del vero protagonista della nostra epoca: l’uomo massa, per dir così.
Nel contesto dell’Ungheria storicamente avvenuta, presenti col nome e cognome tutti gli appropriati personaggi della cronaca e politica e artistica del momento, «l’eroe della nostra storia» all’altezza del 1956 è un quarantaseienne, ebreo, ingegnere per volontà  del padre, misero pellettiere nell’Ungheria fascistizzante degli anni trenta, la quale non avrebbe mai consentito che un ebreo fosse più che un artigiano povero e suo figlio, pur laureato, fosse più che un operaio. Da quando, dopo l’antisemitismo, la clandestinità , la resistenza e la fine della guerra,nel 1945 «quel pezzo d’Europa con gli ungheresi dentro» è spettato ai sovietici, «il nostro eroe» e la giovane moglie, ragazza di borgata, hanno finalmente respirato la speranza della promozione sociale. Promozione che si è data, in effetti, ma sotto forma di sviluppo burocratico, nel senso che il marito Gyula ha ricevuto un «posto infame» nel reparto pianificazione di una fabbrica metalmeccanica, ritrovandosi schiacciato fra il martello delle direttive economiche centrali e l’incudine dei capireparto refrattari, come le direttive stesse del resto, ad ogni idea di sviluppo tecnico; la moglie Kati da parte sua, inizialmente impiegata nella danza, da quando l’euritmia pedagogica steineriana è stata definita avanguardia borghese, ha perso il posto e ora sta nel settore artistico, dove vaga per giurie e circoli aziendali redigendo verbali ad uso del Fondo per le Arti plastiche e figurative, anche se in compenso conosce tanti artisti. 
Comunque il terremoto politico dell’ottobre 1956 ungherese non porta loro altro che disguidi privati: lui non riesce a venir dimesso dall’ospedale dov’è stato operato d’emorroidi, lei riesce con difficoltà  a portare la dovuta assistenza al marito degente, dato le strade bloccate per tutto quel putiferio. I guai vengono dopo. Per un verso, l’Esposizione di primavera (che è stata impostata su ben quattro giurie, una per ogni stile, l’astratto il realista e due sfumature intermedie, così da non scontentare nessuno) viene contestata come revisionista dagli esclusi e dagli ideologi ufficiali, con conseguente rivoluzionamento burocratico. Il che per Kati implicherà , alla fine di molti timori, l’esilio, diciamo, nel reparto che smercia il kitsch artistico ungherese verso Vienna (contenti: gli artisti ben pagati, i mercanti viennesi ben riforniti, lo Stato ungherese ben finanziato in valuta; scontenta lei che ormai si sentirebbe un’artista, almeno in potenza). 
Per un altro verso Gyula un giorno, mentre legge il giornale e medita che il paese sta allontanandosi dal «sogno di essere la Svizzera dell’Europa orientale» – e inoltre davanti alla notizia che «le mele marce» vanno cadendo, che la pulizia prosegue spedita escludendo gli «estranei alla classe operaia», cacciando «i demagoghi di varia natura», individuando i «controrivoluzionari», i «sobillatori» e «altra feccia analoga», ha qualche perplessità  circa la vaghezza di tali definizioni, poiché tempo prima era capitato che «il nostro eroe»venisse appellato «estraneo alla» e persino «traditore della» classe operaia, viste le sue origini in teoria piccolo-borghesi, nonostante la miseria nera – d’un tratto scopre, scritto e pubblicato, il suo nome in un elenco di partecipi a un complotto. Che fare? Farà  di tutto. Inutilmente. È un condannato a morte che si aggira disperato. «Certificati, testimoni, timbri, tutta roba che non serve a nulla. Hai bisogno del contatto giusto. Qualcuno che dica di depennare il tuo nome» da quell’elenco inventato per ragioni politiche, cioè per dimostrare che la sommossa non è stata una insurrezione popolare, gli chiarisce un amico avvocato. Ma non potrà  essere né Kà¡dà¡r né qualcuno della sua cerchia a intervenire, perché democrazia vuole che non s’immischino con le faccende della giustizia. 
A questo punto, dobbiamo togliere al lettore il piacere di scoprire da sé il destino del «nostro eroe». Perché il sugo della storia sta proprio tutto qui: recuperata la vita per un fortunato incontro casuale con un vecchio compagno che ha fatto la giusta carriera, Gyula, che da condannato si era posto domande (perché in Ungheria si compivano infamie sotto qualsiasi regime? perché trionfavano sempre le canaglie, sia col feudalesimo che col capitalismo o il socialismo?) e si era dato risposte provvisorie (l’Ungheria era «una colonia, un po’ dell’occidente e un po’ dell’oriente», «una nazione di servi e terrore, di miseria, malvagità  e illusioni impossibili», e questo popolo aveva bene imparato che «il potere è di chi ha le armi. Tartari, turchi, russi, ebrei, svevi, romeni, serbi o ungheresi, prìncipi o conti, ammiragli a cavallo o segretari del partito, sottufficiali o caporali, tecnici o capi operai», non importava chi fosse il potente di turno, «bisognava comunque rendergli omaggio, genuflettersi, per ottenere la grazia»; autocoscienza operaia? qui si sarebbe dovuto parlare di «autocoscienza dei perseguitati», che sanno «ribellarsi, non fare la rivoluzione»; gli intellettuali «idealizzavano un po’ troppo quel loro popolo»; i poeti no, Attila Jà³zsef sapeva il peso della gleba, ma qui recitavano i suoi versi senza capirli, poi li avevano proibiti senza capire perché li proibivano; i fascisti invece, prima, avevano capito di che si trattava), Gyula ora è libero di partecipare alla vera esibizione di primavera, alla Festa del Primo Maggio nella Piazza degli Eroi.
Una folla impressionante. Mai prima a Budapest tanta gente assieme e per una manifestazione volutamente non obbligatoria. Un gigantesco sfoggio di sostegno al governo, che probabilmente nessuno si aspettava. Persone desiderose di pace e lavoro. Gyula riflette un momento su quella folla di persone perbene. Anche il giornalista di quell’articolo che lo aveva condannato a morte, anche un pennivendolo del regime è perbene? Forse sì, forse – pensa – ha scritto per errore il suo nome egli altri «magari erano davvero sabotatori dello Stato».
Quest’anno la tribuna d’onore è stata montata di fronte agli antichi re magiari, di faccia alla storia ungherese. Kà¡dà¡r, dopo l’inno nazionale, pronuncia un discorso di frasi semplici, afferma: «Chi ci è amico gioisce dei nostri successi, chi non gioisce è nostro nemico». Il popolo, stufo di tribolazioni e pensieri, vuole l’opportunità  di essere felice. Gyula ora pensa che occorre «vivere in questo clima di fiducia».


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