Reprimere o rieducare: il labirinto del carcere

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Lo studio e la narrazione di questo pianeta, compiuti con la precisione di un saggio pieno di dati e la prosa chiara di un racconto pieno di fatti, sono l’obiettivo del volume curato da Domenico Alessandro De’ Rossi e scritto a otto mani con Luciano Bologna, Fabrizio Colcerasa e Stefania Renzulli. Il libro, un’analisi di tutto ciò che riguarda «storia, architettura e norme dei modelli penitenziari», aiuta a riflettere sulla Giustizia e sull’Uomo, riproponendo quel principio che la società  teorica ha impiegato secoli a elaborare («Per una giustizia giusta è necessario che la certezza della pena sia unita a quella del suo fine, volto al recupero e reinserimento del condannato») ma che la società  reale traduce ancora — a meno che non si tratti di imputati dal colletto bianco — nel desiderio di prenderli e, come si dice, buttare la chiave.

Dal Carcere Mamertino, in cui furono rinchiusi e talora giustiziati migliaia di prigionieri da Vercingentorige a San Pietro, fino ai penitenziari-modello di Butner (North Carolina) o Halden (Norvegia), immersi nel verde e con foresterie per parenti in visita, gli autori raccontano un lungo viaggio che attraversa l’Inquisizione e Beccaria, i Piombi di Venezia e San Vittore, il codice fascista del ’31 («La pena deve essere mezzo di repressione, espiazione, emenda, prevenzione generale») e l’attuale legge Gozzini tanto all’avanguardia quanto tremendamente sotto applicata. Il tutto per ricordare, lungi da qualsiasi sequela buonista, ad esempio il semplice dato per cui il 70% dei detenuti che scontano una pena in una galera «normale» torna a delinquere una volta fuori, mentre la recidiva si riduce al 18 (diciotto) per cento quando si applicano pene alternative. Il che significa, rilevano gli autori, che il «criterio di sicurezza» dovrebbe essere determinato da qualche considerazione un po’ più ampia che non il tempo necessario a segare una sbarra. Eppure in Italia, nonostante gli indulti, il popolo dei galeotti è quasi triplicato in vent’anni, dai 26mila del ’91 ai 70mila di oggi: c’è ancora molta strada da fare.

Se poi qualcuno pensasse che magari è facile far tanti bei discorsi sui diritti e sulla dignità  dei detenuti quando la vittima del reato non sei tu, forse può bastare rinviarlo alle ultime righe della nota iniziale in cui — senza enfasi, quasi in un post scriptum — proprio De’ Rossi si sofferma a ricordare «con commozione» sua sorella Giovanna: una «anziana signora trucidata nella sua casa nel dicembre 20009 da mano ancora ignota».


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