Il Colle detta i tempi: governo, niente paralisi

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ROMA — «La paura», scrive il Financial Times, è che l’Italia possa essere «paralizzata politicamente» dopo la resa di Berlusconi e l’apertura di una crisi di governo per il momento ancora virtuale. Una crisi difficile da decifrare, per molti analisti stranieri, non abituati a strologare su casa nostra. Strane dimissioni, commentate in modo ambiguo e piuttosto fuorviante dal premier, in un rosario d’interviste, a margine delle quali c’era chi coglieva il pericolo di «trucchi e giochetti»: perché erano dimissioni annunciate e non formalizzate, posticipate, tali da tenere tutti con il fiato sospeso in attesa di un incerto dopo. E questo mentre le Cancellerie e gli investitori tifano per un nuovo esecutivo, purché serio e retto da una personalità  autorevole, e non per elezioni procrastinate a chissà  quando.
Uno scenario definito da alcuni osservatori come un esempio very typical del marasma politico italiano, e infatti si è subito riflesso nell’ultimo balzo dei rendimenti dei titoli dello Stato. Un effetto drammatico che, prima che il costo del debito pubblico superi il punto di non ritorno oltre il quale l’Italia non riuscirebbe più a finanziarsi sui mercati, ha spinto un allarmatissimo Giorgio Napolitano a intervenire. Facendosi sentire subito — a borse ancora aperte — «in qualità  di capo dello Stato» e attribuendo così la massima solennità  alla propria dichiarazione.
Due, e stavolta davvero inequivocabili, gli scopi della nota ufficiale, che chiarisce contro ogni speculazione i termini del faccia a faccia tra il presidente e il Cavaliere, avvenuti martedì: 1) «fugare ogni equivoco o incomprensione» a proposito del destino del premier, sul quale «non esiste alcuna incertezza», nel senso che si dimetterà  non appena varata la legge di stabilità ; 2) rassicurare tutti, e l’Europa in primo luogo, su quanto accaduto finora e su quanto accadrà , precisando che «sono infondati i timori che possa determinarsi un prolungato periodo di inattività  governativa e parlamentare». E qui, a ulteriore assicurazione, si puntualizza che anche un governo uscente e in carica soltanto per l’ordinaria amministrazione può adottare «provvedimenti d’urgenza» e convocare le Assemblee parlamentari in qualsiasi momento, qualora dovesse rivelarsi «necessario».
Il documento — rivolto alla Ue, per spiegare che si fa tutto il possibile, nel rispetto delle garanzie costituzionali, ma impegnativo pure a uso interno — fissa i passaggi e detta le cadenze della crisi, tradendo l’assillo del capo dello Stato. Tempi stretti come mai si è visto, stando a quanto hanno promesso al Quirinale i presidenti delle Camere e la maggioranza e l’opposizione insieme. «Immediatamente» dopo, e «con la massima rapidità », sarà  Napolitano a guidare la partita. Il cui esito sarà  un nuovo governo (ed ecco smentita, nero su bianco, la pretesa berlusconiana per un voto subito e senza alternative) o il congedo del Parlamento e l’apertura delle urne.
Era il secondo dei tre messaggi consecutivi che il presidente ha sentito il bisogno di lanciare ieri. E qualcuno ipotizza che, quando aprirà  le consultazioni (forse già  domenica) potrebbe lanciarne un altro, di messaggio pubblico. Magari per spiegare che, data l’emergenza, sarebbe utile che la politica trovasse un’intesa su un esecutivo «per l’Europa», purché con una larga base trasversale. Per mettere in sicurezza il Paese, con obiettivi limitati ma stringenti. Lo si chiami di salvezza nazionale o in qualsiasi altra maniera, sarà  difficile per i partiti sottrarsi — davanti a un’Italia ora sotto choc — a un richiamo alla responsabilità  formulato da una «autorità  morale» come Napolitano, perché esattamente così è percepito dall’85 per cento dell’opinione pubblica.
Come potrebbero i partiti giustificare poi un aprioristico «no», se l’incarico di tentare una simile missione fosse affidato a Mario Monti, nominato giusto ieri sera dal capo dello Stato senatore a vita? Una nomina (annunciata da Napolitano a Berlusconi, e da questi condivisa) che è un segnale forte per due motivi. Da un lato, dimostra che la Repubblica dispone di «riserve» di riconosciuto prestigio e le onora. Dall’altro lato, eleva l’economista a un profilo istituzionale, non più ristretto al puro ruolo di tecnico. Insomma: una persona che si può «chiamare in servizio» e che, come sostiene il costituzionalista del Pd Stefano Ceccanti, «è una garanzia per tutte le forze politiche. Perché, si sa, un senatore a vita non si candida ad alcuna elezione».


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