«Banche, il rischio socio pubblico o straniero»

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ROMA — «È indispensabile che il governo e il Parlamento varino al più presto vere riforme, atte a ridurre drasticamente il debito e a rilanciare la crescita dell’economia italiana», perché altrimenti si restringerà  il credito alle imprese e le stesse banche rischieranno di tornare sotto il controllo pubblico o di finire in mano agli stranieri. È stato Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo a lanciare l’appello, e assieme l’allarme, alle autorità  politiche. E lo ha fatto al convegno organizzato dall’Abi per la presentazione del volume «Le banche e l’Italia» rivolgendosi in particolare al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, seduto in prima fila vicino al neogovernatore di Bankitalia, Ignazio Visco. A Napolitano poco prima il presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari, aveva comunicato il clima di grave preoccupazione del sistema bancario. A sua volta il capo dello Stato aveva chiesto a Mussari di poter ricevere il testo dei vari interventi per poter valutare con più attenzione le preoccupazioni delle banche.
«Non possiamo più tacere che la posta in gioco è molto elevata», ha avvertito Bazoli, il quale si è fatto carico ieri di dar voce ai timori del sistema del credito italiano. E ciò a causa della crisi del debito sovrano che ha ampliato gli spread, con i più affidabili Bund tedeschi in misura «non sostenibile» e della decisione europea di alzare il livello di capitale delle banche valutando ai prezzi di mercato i titoli pubblici in portafoglio. Che vorrebbe dire per le banche italiane la svalutazione dei tanti Bot e Btp che hanno in portafoglio con la conseguenza di dover aumentare il capitale aggiuntivo necessario per rispettare i nuovi limiti europei. Uno sforzo che gli azionisti, fondazioni o privati, sarebbero in difficoltà  a varare. «Se tali prescrizioni non fossero riviste, contribuirebbero ad accentuare i rischi di una restrizione del credito senza incidere sul vero nodo della crisi attuale che è di fiducia nella sostenibilità  dei conti pubblici e dell’indebitamento sovrano», ha aggiunto Bazoli. Per il quale se l’Italia continuerà  a sopportare costi insostenibili nel collocamento del proprio debito, «un restringimento del credito all’economia diventerà  una strada ineluttabile che le banche italiane dovranno percorrere, con conseguenze francamente inimmaginabili sulla crescita e l’occupazione». Il problema è che se le banche non riusciranno a raccogliere sul mercato i capitali richiesti dall’Eba, l’Autorità  di sorveglianza europea sulle banche, «la prospettiva che si presenterà  è quella di un intervento dello Stato o direttamente o tramite fondi sovrani». Senza contare « il rischio che potrebbe profilarsi a breve e medio termine di interventi da parte di gruppi stranieri». Ma il ritorno a un sistema bancario pubblico «ci riporterebbe indietro di trent’anni». Pesa dunque la «perdurante incertezza della situazione politica interna», ma le scelte necessarie vanno fatte perché se non saranno compiute l’Italia «rischierà  di compromettere il proprio futuro di sviluppo nella libertà  e nella democrazia».
Ma a protestare non è stato solo Bazoli; il presidente dell’Acri e della Cariplo Giuseppe Guzzetti si è detto «arrabbiato per decisioni che penalizzano le italiane e fanno salvi gli interessi di quelle francesi», che pure hanno avuto bisogno di soldi pubblici, mentre l’amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni ha osservato che la decisione Ue «è incomprensibile», perché le banche italiane presentano forse un livello di patrimonializzazione inferiore a certi Paesi europei, ma hanno bilanci meno rischiosi: su un totale di circa 340 miliardi di titoli tossici in pancia ai gruppi creditizi del Vecchio continente, solo il 4% è in Italia. E poi ci sono situazioni dove l’incidenza di questi titoli tossici sul patrimonio di vigilanza arriva quasi al 100% contro un 10% delle banche italiane.


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