Marocco al voto dopo le riforme “Ma trenta partiti non ci servono”

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RABAT – Si danno la mano a due a due i ragazzi nelle vie di Sale, poco lontano dal centro di Rabat. Un amico con l’altro, fra maschi, come è comune nei paesi islamici, oppure due amiche. Il quartiere è la roccaforte dei salafiti marocchini, anche i comportamenti privati sono rigorosi. Eppure molte ragazze espongono tranquille i capelli, solo qualcuna sceglie il tradizionale niqab, che comunque lascia il viso scoperto. Ci sono pochi giovani in giro fra le viuzze: qualcuno è in centro, a sventolare la bandiera nera del movimento 20 febbraio e a gridare «Mamsawtinch», non voteremo, in dialetto marocchino. Qualcuno, come Zakarias, contesta direttamente l’idea del multipartitismo: «L’Islam è uno solo, non servono tanti partiti, basta che si segua la parola del Profeta e dei suoi contemporanei, i Salaf».
Mentre il giovane salafita parla e mostra orgoglioso sul telefono cellulare un video dei suoi bambini che imparano i versetti del Corano, da una vecchia Mercedes una ragazza velata si sporge gridando «Votate» e lancia in aria centinaia di piccoli volantini con il disegno di una lampada. Simboleggia la luce della fede, presa in prestito per il partito Giustizia e sviluppo, la formazione islamica moderata di Abdelilah Benkirane che viene considerata favorita per le elezioni parlamentari di oggi.
Il partito rappresenta gli islamici più “tranquilli”, quelli che già  in partenza riconoscono un ruolo preminente del re anche nella fede. Accettano che Mohamed VI si definisca “Amir al Mouminine”, cioè comandante dei credenti, e dunque di fatto non mettono in discussione il sistema marocchino. Ben diversa è la posizione di “Giustizia e carità “, l’associazione islamica non riconosciuta, ma tollerata, guidata dallo sceicco Yassine, un oppositore storico, più volte incarcerato, che contesta i richiami al voto e chiama al boicottaggio, sia pure da posizioni molto più moderate rispetto ai fondamentalisti salafiti.
Le elezioni anticipate volute da re Mohamed VI che si terranno oggi arrivano pochi mesi dopo le riforme costituzionali approvate con una valanga di “sì” nel referendum del primo luglio: sono ritocchi che limitano in misura modesta i poteri del sovrano e concedono riconoscimenti ai berberi – il cui idioma diventa lingua ufficiale accanto all’arabo – e alle donne, con il riconoscimento della loro uguaglianza non solo politica ma anche “civica e sociale”. È un voto che lascia poche incertezze: il vero dubbio non riguarda chi – sugli oltre cinquemila candidati presentati in 1.546 liste per 34 partiti – otterrà  uno dei 395 seggi della Camera, ma su quanti andranno alle urne, in un paese di affluenza sempre molto bassa. Se gli islamici moderati vinceranno, come sembra prevedibile, il re sceglierà  un primo ministro nelle file del partito Giustizia e Sviluppo. Il premier dovrà  formare una coalizione con altri partiti, molto probabilmente con quelli dell’Alleanza per la democrazia, considerati “vicini” al sovrano. Dopo di che, dice Zakarias, «non cambierà  niente. Perché a votare vanno le persone ignoranti, quelli che si entusiasmano per il re, ma non capiscono nemmeno quello che succede».
Il voto marocchino non potrà  essere paragonabile a quello tunisino, né servirà  a comprendere le dinamiche negli altri paesi del Maghreb: qui la spinta studentesca e borghese delle manifestazioni non corre il pericolo di essere monopolizzata dagli islamici, come in una certa misura sta succedendo in Egitto e soprattutto in Tunisia, per il semplice motivo che la monarchia marocchina ha la guida religiosa. Al di là  dei salafiti, anche le altre frange radicali dei movimenti di contestazione, gli studenti, i marxisti e i gruppi berberi hanno chiamato al boicottaggio. Ieri sono scesi in piazza ancora una volta, gridando «non voteremo» e sfidando gli assalti dei baltajia, i picchiatori pagati per impedire le manifestazioni. Secondo Human Rights Watch, sono centinaia i militanti che diffondevano volantini contro la partecipazione al voto e si sono visti accompagnare in caserma ed interrogare dalla polizia. I testimoni sottolineano comunque che si è trattato di un atteggiamento di intimidazione, più che di violenza.


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