Il bisogno di equità  sociale nell’epoca dei sacrifici

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Il 13 maggio 1940, alla Camera dei Comuni, il nuovo premier e ministro della Difesa, Winston Churchill, presentando il suo governo e accingendosi a «guidare gli affari di Sua Maestà  Britannica» nel momento più duro della storia inglese, disse: «non ho da offrirvi che sangue, sudore, fatica e lacrime. La nostra politica è fare la guerra: nostra mèta, la vittoria». La Camera gli diede unanimemente la fiducia, e anche tutta «la nazione fu unita e piena d’entusiasmo come non mai».
Dopo la battaglia di Canne (216 a. C.) anche un altro impero, quello romano, era stato in pericolo mortale; perduti almeno sessantamila soldati, un console morto in battaglia, il nemico più formidabile di Roma, Annibale, libero di agire nel cuore dell’Italia meridionale. Tuttavia, la città  non si perse d’animo. Effettuò gli ultimi sacrifici umani della sua storia per placare gli dei, e il popolo si affidò alla dittatura informale del ceto senatorio. La Roma repubblicana non ebbe allora un leader capace di alta retorica come Churchill, ma un abile attico della guerra di logoramento, Quinto Fabio Massimo. Alla fine, però, Cartagine fu vinta, come Berlino.
Lacrime e sangue, dunque – il dolore per la sconfitta, che però non annienta; la ferita aperta, che però non abbatte –, dicono di un caso d’emergenza, di una necessità  che rafforza l’animo di chi la deve fronteggiare. E dicono anche che questa condizione eccezionale di pericolo produce l’emergere di una leadership, individuale o collettiva, per condurre la lotta all’esterno, e per imporre, al tempo stesso, la pace sociale e politica all’interno. Come dopo Canne s’interruppe il confronto fra patrizi e plebei, così nell’imminenza della battaglia di Francia Churchill formò un governo di unità  nazionale e non accontentò coloro che chiedevano la testa dei politici conservatori che avevano voluto Monaco, nel settembre del 1938: «se il presente cercasse di erigersi a giudice del passato, perderebbe il futuro», rispose il premier.
Non sempre è andata così: la Francia rivoluzionaria, minacciata nel 1792 dal prussiano Brunswick, risponde con la guerra – la battaglia di Valmy –, ma al tempo stesso con le stragi di settembre, cioè con l’uccisione di qualche migliaio di aristocratici prigionieri. In questo caso, la logica amico-nemico che scatta nelle emergenze – serrare i ranghi per resistere all’ora difficile, e per passare al contrattacco – si manifesta anche all’interno, e non solo verso l’esterno. Una rivoluzione, infatti, contro il nemico che sta davanti alle porte trae forza dalla guerra civile contro il nemico che sta dentro le mura; i sacrifici umani con cui Roma aveva cercato di propiziarsi gli dei diventano atti sacrificali della nuova religione rivoluzionaria. Il sangue e le lacrime non sono solo quelle dei cittadini; anche i nemici del popolo piangono e muoiono, mentre l’esercito sanculotto – formato dalla leva in massa – corre alle frontiere.
Ma quando non si va alla ricerca di un capro espiatorio, “lacrime e sangue” indica una situazione di necessità  davanti alla quale tutti sono uniti e tutti sono uguali; senza che le differenze sociali e politiche vengano cancellate, sono tuttavia momentaneamente neutralizzate da una mobilitazione corale dei cittadini, chiamati alle armi per salvare la patria. Se è vero che le categorie di giusto e ingiusto spariscono davanti allo stato d’eccezione, in cui vale solo la logica dell’efficacia e dell’inefficacia, è anche vero che senza l’attenuazione dei privilegi, senza la consapevolezza che tutti sopportano gli stessi rischi e sacrifici, anche la risposta all’emergenza viene indebolita. Nei momenti di crisi, l’equità  – il far sì che i piatti della bilancia siano pari, livellati, senza che uno penda a terra, gravato da oneri vessatori e l’altro salga al cielo, libero e leggero da ogni gravame – è una delle condizioni dell’efficacia. Si possono richiamare tutti al coraggio e al sacrificio solo se nessuno fa affari con l’emergenza.
Tutto ciò vale anche ai tempi nostri, anche se la guerra è solo economica e se non è neppure ben chiaro chi sia il nemico: esterno o interno? il nostro debito o chi ci specula sopra? Le logiche severissime su cui si fonda l’euro o quelle speculative dei mercati? La Bce con le sue lettere o la Germania con la sua riluttanza a una politica economica europea centralizzata? La crisi finanziaria nata a Wall Street nel 2008 o, in ultima analisi, noi stessi e la politica, da noi voluta, che ha sempre rinviato la soluzione dei problemi? E vale ancor più nel momento in cui a gestire la cosa pubblica sono chiamati gli esponenti delle ultime élites che il Paese ha a disposizione, le ultime riserve della Repubblica: professori universitari e manager cattolici. Che devono trovare la forza di dare segnali chiari e forti di equità  e di lotta ai privilegi; sia perché solo così la manovra può essere condivisa, e quindi sostenibile, sia perché la qualità  e la legittimità  delle élites – di quelle politiche e di quelle sociali – si rivela proprio quando a esse un Paese si affida, aspettandosi che diano l’esempio. Dopo tutto, non si chiedono sacrifici umani, né guerre civili ideologiche; ma ragionevole uguaglianza nel portare il peso dell’emergenza. Forse le rispettabili lacrime di un ministro equivalgono simbolicamente al gesto d’espiazione delle matrone romane che, dopo Canne, spazzavano i pavimenti dei templi con le loro lunghe chiome sciolte. Ma oggi alle élites si chiedono altri segni, più tangibili, di partecipazione alle lacrime e al sangue di tutti.


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