Il paradosso: più mercato, meno scambi

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Si è trattato naturalmente di un grande avvenimento che ha attirato l’attenzione di tutti e che bene si accompagna all’altrettanto recente accordo transpacifico promosso dagli Usa tra alcune nazioni asiatiche e le nazioni sudamericane che si affacciano appunto su quell’oceano. In ogni caso, a prima vista il commercio mondiale allarga i suoi confini. Ma se si guardano le cose più da vicino i volumi di scambio non aumentano: anzi dal 2006 al 2010 si sono costantemente ridotti, con una diminuzione più consistente dopo la crisi mondiale finanziaria del 2007. Tutto ciò è molto preoccupante, soprattutto per Paesi come l’Italia e la Germania che sono essenzialmente Paesi esportatori e che, dall’alto della loro consistente posizione manifatturiera, hanno un ruolo decisivo, con la Francia, per la crescita dell’intera Europa. Che cosa è successo? 
Fino al 2006 in Europa e in Asia il tasso di crescita delle esportazioni eccedeva quello delle importazioni; e questo perché, fino a quella data, una domanda sostenuta a livello mondiale consentiva di mantenere i ritmi del commercio a un discreto livello. Dopo il 2007 tutto muta, perché la domanda di importazioni decelera fortemente e contemporaneamente negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone. A partire dal quarto trimestre del 2008 gli scambi mondiali hanno una forte inversione di tendenza: in Europa cadono del 16%, in Usa del 7% e in Asia del 5%. Il prodotto interno lordo mondiale nel 2009, come è noto, si abbassa fortemente, ma ancora più forte è la contrazione degli scambi mondiali che è di dieci punti superiore al crollo degli scambi. È per questa ragione, e solo per questa ragione sfuggita ai più, che la Cina diviene nel 2009 il primo esportatore mondiale superando la Germania, occupando il 9,6 per cento del commercio mondiale. Su questa situazione si abbatte nel settembre 2008 il fallimento di Lehman Brothers, con la caduta dei prezzi dei beni immobiliari, del valore del patrimonio delle famiglie e l’aumento del risparmio a detrimento dei consumi e degli investimenti. Si scatena la crisi finanziaria mondiale che ha effetti diretti sul commercio mondiale per la riduzione dell’offerta di credito ed effetti indiretti a causa della riduzione della domanda globale. Disponiamo di dati certi, per esempio, sulla caduta della ricchezza netta delle famiglie americane tra il 2007 e il 2009, diminuzione che raggiunge i 130 miliardi di dollari, ossia il 20% della loro ricchezza complessiva e a questo fa da contraltare quello della caduta della ricchezza nel Regno Unito con 1.000 miliardi di lire sterline nel 2008 (circa il 25% della loro ricchezza netta).
Si può dire, allora, che siamo davanti a un forte abbassamento della vendita di tutte le forme di beni che si scambiano nel commercio mondiale: quelli di pronto consumo, quelli di consumo durevole, quelli rivolti a sostenere gli investimenti in macchinari e in tecnologia. Tutto ciò determina una caduta verticale degli scambi internazionali. Alle spinte deflazioniste le famiglie rispondono non consumando o consumando meno. Le imprese, invece, rispondono integrandosi verticalmente. Ossia ritornano, come negli anni dal 1950 al 1980, a produrre al loro interno la maggioranza dei beni intermedi di cui hanno bisogno per sviluppare le catene della produzione. Ma questo vuol dire far cadere in maniera verticale il commercio interstatale e spezzare le catene di produzione a livello mondiale, che sono la spina dorsale della globalizzazione. Le imprese cercano di rispondere così alla crisi di credito che le attanaglia, ma questo ha degli effetti devastanti sugli scambi tra impresa e impresa e anche tra banche e impresa, in una sorta di miniautarchia locale. Per finire occorre considerare che tutto ciò ha aumentato la sfiducia tra partner consolidati del commercio mondiale: tutte le imprese, infatti, rispondono alla crisi del credito contraendo il volume degli scambi internazionali. Si pensi che la contrazione degli scambi mondiali (il 12,2% in meno nel 2009 rispetto al 2008), ha superato addirittura il tasso di diminuzione del prodotto interno lordo mondiale, che nello stesso periodo è caduto del 2,2%. 
È un miracolo, per certi versi (e qui sta, finora, la differenza rispetto alla crisi del 1929), che dinanzi a tutto ciò, che ha provocato circa 200 milioni di disoccupati nei Paesi dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), gli Stati non abbiano ancora risposto con forti e decise politiche protezioniste. Anzi, sono in corso tendenze opposte al protezionismo; quelle tendenze che ho ricordato all’inizio: l’entrata della Russia nel Wto e l’accordo transpacifico. Il che vuol dire che ci sono tendenze contrastanti in corso e che ancora incerto è il volto del nostro futuro industriale, di consumo, financo dei nostri stessi orizzonti vitali. Tutto ciò se ci pensiamo, come siamo, cittadini del mondo. E lo siamo anche nella crisi più devastante che mai ci sia precipitata addosso.


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