La “nuova frontiera” del ferro

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Siamo nella regione indiana chiamata mineral belt perché è formata da montagne rocciose non alte – poche superano appena i 1.000 metri – ma piene di ferro, bauxite, carbone, diamanti, oro.
La Tata road dunque taglia tra le risaie, traversa borghi rurali dove abbondano cantonment militari e mercati, e sale verso Noamundi, villaggio sperduto tra le montagne, in una zona di foreste circondata da varie mitologie – ci sono i guerriglieri maoisti, è stata avvistata una tigre… Il villaggio della foresta è comparso sulle mappe più o meno quando vi è arrivata la Tata Road: è il collettore di un grande comprensorio di miniere di ferro che si estende per decine di chilometri. Una ferrovia fa lo stesso tragitto, prosegue con un ampio anello tra le montagne (cioè, tra le miniere), e punta verso un altro polo di acciaierie e centrali termiche, un centinaio di chilometri più a nord.
Il ferro ha trasformato il paesaggio, fisico e umano, di queste terre. Noamundi era un villaggio di adivasi, indigeni, tra la foresta fitta e un altipiano di risaie e macchie di bosco. Poi con le miniere sono arrivati lavoratori dalle pianure; è arrivato un indotto – camion, officine meccaniche, commercio. Oggi questa è una “nuova frontiera” dello sviluppo indiano. È solo un avamposto, ma lungo la strada principale stretta e piena di buche si allineano negozi di elettrodomestici, telefonini, perfino gioiellerie (i lavoratori mettono in oro i propri risparmi) e rivenditori d’alcool. La sera solo le lampade dei negozi fanno luce, ma sulla collina che sovrasta l’abitato incombono giganteschi riflettori, come quelli di uno stadio olimpico: guardano un impianto minerario della Tata. Del villaggio originario restano gruppi di vecchie case chiamati basti, parola indiana che di solito indica gli slum, disseminati tra impianti industriali e officine.
Le miniere qui sono tutte a cielo aperto, gestite da grandi compagnie (come Tata negli anni ’80 qui ha costruito una mini-città  per i suoi dipendenti, con case, scuole, ospedali) o da piccole aziende al limite dell’informale). A «cielo aperto» significa un enorme buco scavato nella montagna, con terrazze digradanti verso il centro come gironi infernali, ruspe che scavano e camion che portano fuori blocchi di pietra rossastra.
Le grandi aziende fanno tutto in proprio, ma la miriade di piccole mandano il loro minerale agli impianti spaccapietre: ce ne sono decine. Spesso di vedono gruppi di donne fare la spola verso i magazzini, trasportando polvere rossa in ceste che tengono in equilibrio sulla testa.
Per decine di chilometri si susseguono miniere, crushers, slum di lavoratori, qualche residuo gruppo di case di villaggi scomparsi – pareti di terra, tetti e recinti di legno e foglie, piccoli orti, bambine di guardia a un gregge. Fino a 20 anni fa, ci dicono alcune donne, qui c’era una grande foresta di sal, l’albero chiave di qui, e c’erano elefanti, tigri, orsi: prima che arrivassero le miniere a tagliare la foresta, aprire la terra, inquinare i torrenti da cui i villaggi attingono acqua. Gli indigeni, agricoltori su piccoli appezzamenti propri e raccoglitori di “prodotti minori della foresta”, sono diventati abitanti di slum della frontiera mineraria. O si sono ritirati in zone più remote: ma non avranno scampo, l’economia mondiale continua a chiedere acciaio, le miniere avanzano.


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