«Indigenza», «malattie», «esodo» Il massacro riscritto dai manuali

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Il genocidio armeno, che molti riconoscono e altri rifiutano, per ridurlo a una sommatoria di inevitabili massacri dovuti alle cornici della guerra, è un passaggio delicatissimo che la Turchia utilizza per distinguere Paesi amici da Paesi ostili. Altri si servono del problema per ragioni di interesse, mentre un manipolo di puntigliosi sognatori, che rifiutano i dogmi della realpolitik, pensa che sia prioritaria, costi quel che costi, la ricerca della verità . 
A leggere i libri scolastici e in generale i testi che raccontano a giovanissimi e giovani turchi la storia del loro Paese, del genocidio degli armeni non si parla. Prendiamo due libri di storia tra i più adottati nelle scuole e quindi di generale consultazione. Uno ha un titolo che si traduce così: «Da ieri a oggi, le relazioni turco-armene»; l’altro titolo è più laconico: «Armeni, esilio e immigrazione». In entrambi i volumi, la tesi è sempre la stessa: nell’Anatolia orientale gli armeni, stanchi e provati da dure condizioni di vita, decisero di ribellarsi. L’impero ottomano reagì, «trasferendo» gli armeni in Siria. Ma molti di costoro, «provati dalle malattie, dall’indigenza e da incidenti vari, morirono. Il numero delle vittime si aggira attorno alle 300.000 persone». Mentre le valutazioni di chi sostiene che ci fu genocidio arrivano a un milione e mezzo di morti. L’elemento che gli storici, al servizio della didattica, sottolineano per confutare la tesi dello sterminio sistematico è che «gli armeni di Istanbul, di Bursa e di Smirne, essendo perfettamente integrati, non subirono ritorsioni né violenze di alcun genere».
Gli studenti turchi crescono quindi studiando quello che, per il vertice del Paese — prima con i laici ad oltranza, e ora con gli islamici moderati del partito di Erdogan — è un dogma che nessuno ha ancora avuto il coraggio di scalfire.


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