Mondo 2012, un salto nel voto Anche Barack Obama resta appeso all’Italia

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Chi avrebbe mai immaginato che anche il destino di Barack Obama è appeso all’Italia? Non è amore del paradosso; è il predominio dell’economia sulla politica.
Mancano più di dieci mesi alle elezioni presidenziali statunitensi, ma allo stato attuale Obama può ragionevolmente sperare di essere confermato per un secondo mandato. E non perché abbia fatto cose straordinarie (ci ha provato ma non ci è riuscito), o perché abbia mantenuto una quota decente di promesse elettorali (se ne è rimangiate troppe) o perché la locomotiva dell’economia abbia ripreso a tirare (la ripresa è di là  da venire), ma semplicemente vincerà  per mancanza di avversari, o almeno di sfidanti credibili e presentabili. Tutti i nomi usciti fino a oggi sono per una ragione o per l’altra destinati alla sconfitta: due di loro (Mitt Romney e Jon Huntsman) perché gravati dall’insormontabile handicap di essere mormoni, uno (Newt Gingrich) per una carriera politica alle spalle già  troppo lunga con troppi scheletri nell’armadio, il texano Rick Perry per le innumerevoli gaffes e amnesie, l’anziano Ron Pol (78 anni) per l’età  e per le posizioni razziste che il New York Times non si stanca di tirargli fuori, Michele Bachman per il suo oltranzismo da vandeana ignara di politica, Rick Santurum per le sue posizioni a destra di Attila e per il suo integralismo religioso.
Insomma, tutti i candidati usciti fuori dal cilindro repubblicano sembrano scelti apposta per non impensierire Obama. Il quale sa di essere lui stesso il suo vero tallone d’Achille e teme soprattutto l’astensionismo dei suoi sostenitori delusi che si sentono traditi. Ed è la ragione per cui sta cercando di usare il movimento Occupy Wall street come la sponda con cui giocare di carambola rispetto agli elettori centristi. Perché Occupy Wall Street – al di là  delle sue future prospettive strettamente politiche (che sembrano abbastanza labili) – ha avuto l’enorme merito di riportare al centro dell’attenzione un tema che era scomparso dal discorso pubblico, e cioè quello dell’iniquità . Lo slogan de «siamo il 99% contro l’1%» ha avuto una presa formidabile e ha appunto cambiato i termini del pubblico dibattito. È in questo cambiamento che spera Obama.
Al contrario, con candidati quasi tutti sbilanciati sull’estrema destra, i repubblicani temono l’astensionismo dei propri moderati e dei simpatizzanti indipendenti. Per cui è già  cominciata l’inaggirabile solfa che accompagna ogni scadenza presidenziale e che il cronista sente ripetere puntuale come la morte: «Nessuna elezione è stata più importante di questa»: di questa del ’92 tra Bill Clinton e Bush padre; di questa del ’96 per il secondo mandato di Clinton; di questa del 2000 tra Al Gore e Bush figlio; di questa del 2004 tra Bush e John Kerry; di questa del 2008 tra John McCain e Obama, e mi limito a quelle che ho seguito io personalmente. La frase «Nessuna elezione è più importante di questa» può poi continuare variando il momento da cui è più importante: per Gingrich per esempio «è la più importante dalla guerra civile (dal 1860)», per Huntsman dalla Grande Depressione (dagli anni ’30). Per altri è «a memoria d’uomo» o «nell’ultimo secolo». Ma un punto resta fermo: tanto meno l’elezione è sentita come rilevante dalla gran massa dei cittadini, tanto più è enfatizzata la sua importanza dai protagonisti.
Ma quel che Obama teme davvero più di tutto è il crollo dell’Europa e il contagio agli Stati uniti dell’attacco speculativo contro il debito sovrano. Ed è qui che interviene l’Italia. Perché è chiaro che è il nostro paese l’anello debole di tutta la catena. E non perché sia oggettivamente il più fragile, ma perché la sua è la fragilità  più grossa. Una cosa è rafforzare un debole topolino, altra cosa rimettere in piedi un debole elefante. Un attacco deciso contro un debito di 2.500 miliardi di euro non è fermabile da nessuna immissione di liquidità , a meno che non si coalizzino tutte le potenze eocnomiche mondiali, prospettiva del tutto irrealistica. Ma un default dell’Italia porterebbe inevitabilmente all’esplosione dell’euro che a sua volta riavvierebbe una gigantesca recessione internazionale. S’innescherebbe allora l’attacco contro il debito Usa (che è di 12.000 miliardi di euro), a maggior ragione a causa dell’incertezza politica fino al prossimo dicembre, dovuta proprio alle elezioni.
È uno scenario apocalittico che non risparmierebbe nessuno. Ma anche scenari intermedi avrebbero effetti recessivi sulla già  stremata economia statunitense e prosterebbero il mercato del lavoro aumentando la disoccupazione a un livello di cui Obama sarebbe ritenuto direttamente responsabile (un po’ come è avvenuto in Spagna dove gli spagnoli hanno addossato a Zapatero la responsabilità  della disoccupazione per affidarsi a un Rajoy che la aumenterà  molto, ma molto di più).


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