Moneta in crisi? Ma 7 italiani su 10 credono più alla Bce che ai politici

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Dopo aver illustrato le percentuali di un’indagine d’opinione condotta su un centinaio di dirigenti e imprenditori e su un campione rappresentantivo della popolazione italiana di età  tra i 18 e i 60 anni con accesso Internet da casa, formato da 1.151 intervistati, il professor Carlo Altomonte che insegna Economia dell’integrazione europea alla Bocconi ieri ha rilevato: «L’opinione pubblica è probabilmente più avanti della classe politica nel capire l’importanza delle riforme necessarie. Il sistema dei partiti, in crisi, sta veicolando interessi che non coincidono con quelle che sembrano le convinzioni dell’opinione pubblica».
L’uscita dalla crisi finanziaria che sta rosolando l’Europa non sarà  indolore, lo sanno in tanti. Però a vedere quanto ha riscontrato una ricerca eseguita tra il 2 e il 9 novembre scorsi per conto di «Economia e società  aperta», forum fondato dall’Università  Bocconi e dal Corriere con l’alto patronato del capo dello Stato, sia Montecitorio sia Palazzo Madama appaiono postazioni arretrate più che avanguardie del Paese.
Interpellati mentre c’era ancora il governo Berlusconi, il 72% dei cittadini e l’88% degli imprenditori e dirigenti hanno risposto che sulla crisi gli interventi dell’Unione Europea, della Commissione di Bruxelles e della Banca centrale europea sono un aiuto importante. Il 72% dei cittadini e l’86% di imprenditori hanno condiviso l’idea che i bilanci di previsione dell’Italia e degli altri membri dell’Ue siano sottoposti all’approvazione delle autorità  europee. Per decenni, sono stati politici del nostro Paese a farsi scudo con l’Europa per addossare a un’autorità  superiore l’onere di imporre misure impopolari. In novembre parevano essere gli italiani, o almeno una parte consistente di loro, a invocare l’Europa per farsi scudo da una politica pavida che può costare cara.
«C’è sfiducia in una parte di elettorato sulla possibilità  che sia questa classe politica a portare avanti le riforme», ha sostenuto sui molti «sì» ai controlli europei per i bilanci la presidente della Confindustria Emma Marcegaglia nella presentazione della ricerca, «L’Europa e l’agenda delle riforme», alla quale hanno partecipato anche il direttore delCorriere Ferruccio de Bortoli e Emilio Dalmonte della rappresentanza dell’Ue a Roma.
Riforme è parola in apparenza neutra. La sostanza non lo è. Su chi dovrà  pagare di più per l’uscita dalla crisi la partita è aperta. Marcegaglia ha riferito che «nei primi giorni di gennaio è volontà  del governo affrontare il tema della riforma del mercato del lavoro». Significherebbe l’avvicinarsi di decisioni su più o meno licenziabilità , indennità  di disoccupazione, trattamenti per i precari di oggi. «Dalla nascita dell’euro, rispetto alla Germania abbiamo perso il 25% di competitività . La produzione industriale in Italia è circa il 20% in meno», ha fatto presente Guido Tabellini, rettore della Bocconi. A suo avviso, le riforme che il governo di Mario Monti mette in cantiere andavano fatte da «molti anni» e i Paesi ad alto debito debbono abituarsi a più pericoli se perdono fiducia. Secondo Tabellini la Bce agisce «in modo un po’ schizofrenico»: ha comprato titoli di debito degli Stati, però dichiarando di non poterlo fare di più «contribuisce a minare la fiducia che gli acquisti vogliono dare». La crisi può far finire l’Ue? Con la determinazione di chi non può considerarla un’opzione, la risposta del ministro degli Affari europei Enzo Moavero: «Ho un ottimismo che è pragmatico. Non credo esista un vero piano B».


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