Percorsi di verità  su una tragedia negata

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Alessandro Leogrande, nel suo ultimo reportage narrativo, Il naufragio (Feltrinelli, pp. 224, euro 15), ricostruisce una vicenda esemplare, trasformando il relitto della nave albanese Kater i Rades in un formidabile strumento di narrazione, riempito «delle storie di chi la vita l’aveva persa al suo interno». Storie che aspettano giustizia, perché «le tragedie non sono eventi naturali, sono eventi umani, grondano di responsabilità », e perché «non c’è stato niente di fatale, di naturale, di ineluttabile in quello che è accaduto la sera del Venerdì Santo del 1997». Quella sera, la sera del 28 marzo 1997, la motovedetta Kater i Rades – 21 metri e mezzo di lunghezza per 3 e mezzo di larghezza, 56 tonnellate, velocità  massima 12 nodi – viene speronata dalla corvetta Sibilla della Marina italiana – 1285 tonnellate, 87 metri di lunghezza, 10 di larghezza, 24 nodi di velocità . Il risultato è una tragedia: le vittime del naufragio sono 81, tra cui 24 dispersi. Solo due le donne sopravvissute, Ismete Demiri e Luana Talleda. «Tutte le altre non ce l’hanno fatta». Sulla Kater i Rades, che avrebbe potuto ospitare un equipaggio di 10 persone, ne erano stipate 100-120, molte le donne e i bambini. La destinazione era l’Italia, l’Italia veicolata da una lingua suadente, amichevole, la lingua della televisione, con le sue finzioni, il suo mondo «illuminato da merci luccicanti», tanto diverso da quello che si vuole lasciare: l’Albania.
Uscita dal più claustrofobico dei regimi comunisti, quello di Enver Hoxha, morto nel 1985, l’Albania di allora paga il contrappasso per l’abbraccio entusiastico alle false promesse del capitalismo: le società  finanziarie crollano, le «piramidi» sono castelli di carta, la «grande lotteria collettiva» in cui credono in molti si rivela una truffa. «Le manifestazioni pacifiche degenerano. Vengono assaltate le caserme, e prese le armi». Valona, porto di mare, è in preda al caos. Il presidente della Repubblica Sali Berisha impone il coprifuoco. Il 15 marzo ’97 vengono chiusi l’aeroporto di Tirana e i porti di Durazzo, Saranda e Valona. Per salvare la pelle, qualcuno decide di affidarsi alle rotte non ufficiali. Come fanno quelli che si imbarcano sulla Kater i Rades. Tra Valona e Otranto ci sono solo sessanta miglia di mare. Ma di mezzo c’è l’isterismo istituzionale italiano di fronte al caos albanese. Quello che sintetizza Irene Pivetti, fino a pochi mesi prima presidente della Camera, quando afferma che i profughi vanno «ributtati a mare». Il ministro della Difesa Beniamino Andreatta avanza in Consiglio dei ministri una proposta, poi accolta dal ministro degli Esteri Lamberto Dini, per un accordo bilaterale con l’Albania.
Tutto il controllo del tratto di mare compreso tra il molo del porto di Valona e quello dei porti di Brindisi e Otranto spetta alla Marina militare italiana, cui vengono assegnati compiti di polizia, di «pattugliamento dissuasivo» secondo le parole di Andreatta. Le regole di ingaggio prevedono «azioni cinematiche et di interposizione volte a interrompere navigazione verso coste italiane et successivamente scortare rimorchio in acque albanesi». Formalmente, la sera del 28 marzo ’97 quelle regole non sono ancora valide. Ma sono «efficaci». Per le persone stipate sulla Kater i Rades, vittime dell’inseguimento della corvetta Sibilla, l’Italia cambia volto: non è più il paese di Raffaella Carrà , ma «un paese di stragi e di morti», dice Krenar Xhavara, uno dei sopravvissuti del naufragio, «il paese in cui ogni strage, quando non sia prodotta da un evento naturale, è avvolta da un insopportabile coltre di silenzio», aggiunge Alessandro Leogrande, che ricostruisce la gestione del naufragio, «tra farsa e tragedia», da parte della politica italiana. Una politica cialtrona e miope, cinica e spietata, che erige un muro di gomma, per evitare che il processo che inizia il 2 maggio 1999 alla prima sezione penale del Tribunale di Brindisi accerti la verità : le versioni degli ufficiali della Marina sembrano concordate, chi sa non parla, chi sa e parla viene accusato di protagonismo e denigrato; i filmati, che pure esistono, si interrompono, le trascrizioni foniche delle conversazioni sono lacunose.
Diventa impossibile ricostruire la catena di comando, «vengono meno le responsabilità  della gestione politico-militare della crisi albanese». Il naufragio viene catalogato come incidente, «l’accertamento della verità  rimane un esercizio squisitamente tecnico». Un’enorme massa purulenta, scrive Leogrande, viene ridotta a piano lineare. Se il percorso verso l’accertamento della verità  viene subito depoliticizzato, se la giustizia è quasi impotente perché la politica abdica alle sue responsabilità , nascondendosi dietro silenzi omertosi, Leogrande si assume invece la responsabilità  di disegnare la cartografia del naufragio. Che è un fatto collettivo solo in apparenza, nel racconto storico o nella percezione giornalistica. Ed è invece la «somma di tanti abissi individuali, privati, ognuno dei quali è incommensurabile, intraducibile, mai pienamente narrabile». A poter essere narrati, sono solo frammenti. Come i foglietti piegati con cura all’interno dei passaporti, trovati sui corpi in fondo al mare. Fogli che raccontano storie interrotte quella sera del Venerdì Santo 1997: «Papà , scusami se ti ho fatto arrabbiare ma ti prometto che non farò più la cattiva come oggi. Mi sono veramente pentita e vedrai che manterrò la promessa. Tu sei il più buono del mondo e ti voglio tanto bene. Il tuo cuoricino che ti vuole bene».
«Il naufragio» di Alessandro Leogrande


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