Stop unitario. Con mal di pancia

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Uno sciopero generale unitario indetto, per la prima volta dopo anni di divisioni, da tutti i sindacati confederali. Cgil, Cisl, Uil, e persino Ugl, domani mescoleranno le loro bandiere per protestare contro la manovra economica di Monti. Non per far cadere il governo, più prosaicamente per convincere l’esecutivo a dare qualche segnale di equità  a un intervento recessivo e pesantissimo contro le fasce sociali più colpite dalla crisi, lavoratori dipendenti, pensionati e giovani. In piazza echeggeranno le stesse richieste che oggi il presidente del consiglio ascolterà  ricevendo i sindacati, in particolare l’eliminazione dell’odiosa, mancata indicizzazione delle pensioni fino a 1.400 euro lordi che fa piangere persino la ministra Elsa Fornero, un innalzamento meno feroce dell’età  pensionabile e l’esenzione dell’Ici sulla prima casa. Poi ognuno, singoli sindacati e semplici cittadini, aggiungerà  al cahiers de doléances le sue rivendicazioni. Tre ore di sciopero, frutto della mediazione raggiunta tra la Cgil da un lato e dall’altro i protagonisti di una lunghissama stagione di accordi separati. Uno sciopero forse più importante per il segnale di una pur difficile unità  ritrovata che non per la determinazione di andare fino in fondo – non a fondo, come direbbe Monti – fino alla caduta dell’esecutivo dei professori, obiettivo che nessun sindacato intende perseguire. Tre ore, e non otto, perché oltre questa soglia minima l’unità  sindacale non potrebbe spingersi. Anzi, si può dire che soltanto la drammaticità  dell’attacco (classista, ma Cgil, Cisl e Uil preferiscono usare termini più morbidi e digeribili dalle forze politiche «vicine») ha consentito un’alleanza che allo stato dei rapporti sindacali si potrebbe definire contro natura: gli accordi separati senza e contro la Cgil voluti dal governo Berlusconi e agiti da Cisl e Uil hanno colpito settori strategici del mondo del lavoro, dal pubblico impiego al commercio, ai metalmeccanici. Si tratta perciò di un’alleanza fragile che non può permettersi sbavature, ma le sbavature ci sono, è inutile e sbagliato nasconderle. La pietra dello scandalo è rappresentata, ancora una volta, dai metalmeccanici. Qualche ora dopo i presidi unitari in molte città  italiane, Fim, Uilm, sigle aziendali e di destra firmeranno a Torino un accordo con Marchionne per estendere a tutti gli 86 mila lavoratori della Fiat il contratto-truffa di Pomigliano, una pietra tombale sul contratto nazionale di lavoro, sul diritto a scioperare e ad ammalarsi senza essere penalizzato, a contrattare stabilimento per stabilimento le condizioni di lavoro, gli strordinari, i ritmi e la turnistica. Una pietra tombale sul diritto dei lavoratori a eleggere i propri rappresentanti, sostituiti da persone scelte dalle organizzazioni firmatarie del contratto aziendale. Infine, Fim e Uil si assumono la responsabilità  di espellere dalla Fiat la Fiom, il sindacato più rappresentativo, colpevole di non aver accettato il diktat di Marchionne a Pomigliano come altrove. Se, come sembra, lunedì stesso o comunque nei primi giorni della settimana si arriverà  a questa rottura delle regole e della pratica democratica, si aprirà  uno spartiacque nella storia sindacale italiana. Una probabile ragione (al di là  di quelle tecniche ufficiali) del rinvio a lunedì dell’accordo separato già  scritto da Marchionne in quasi tutti i dettagli, sta proprio nel tentativo di svelenire lo sciopero generale di domani, quando a differenza della decisione presa da Cgil, Cisl e Uil di effettuare tre ore di sciopero, la Fiom farà  cortei in tutt’Italia all’interno di un’intera giornata di blocco della produzione. Otto ore di sciopero contro la manovra di Monti e, al tempo stesso, contro quella di Marchionne. Sono due facce della stessa medaglia, dentro una logica liberista incompatibile con la democrazia. In realtà  territoriali importanti, le Camere del lavoro hanno deciso le otto ore per tutte le categorie e hanno assunto le rivendicazioni della Fiom, contro Monti e contro Marchionne. Così sarà  a Brescia, a Bologna, a Reggio Emilia, a Modena, a Ferrara e in altre realtà  tra cui la Liguria. Una scelta, questa, che non è piaciuta a Susanna Camusso e al gruppo dirigente della Cgil che tenta di salvaguardare un equilibrio troppo instabile e difficilmente duraturo nel rapporto con Cisl e Uil, salvo rotture verticali dentro la confederazione e tra la confederazione e la categoria. Se alla Fiat sarà  praticata dagli amici del giaguaro una rottura epocale, difficilmente si potrà  sostenere che la Fiat è un caso a parte, con la stessa faccia tosta con cui in troppi provarono a convincere la Fiom a firmare a Pomigliano, perché si trattava di «un caso irripetibile»: eliminare i diritti e sospendere la democrazia per uscire dalla crisi è una ricetta che fa gola a tutto il padronato. Nonché a un governo sostenuto dall’intero arco costituzionale. *** ********* PAROLE NELLA CRISI «Per decidere se revocare o no lo sciopero ci vorrebbero risposte all’altezza della richiesta di equità . Per ora non si possono fare previsioni», ha detto Susanna Camusso, segretaria Cgil: «Non mi sembra che ci siano grandi spazi di cambiamento». «Noi non siamo il governo, ma lo sosteniamo – ha detto ieri Stefano Fassina, responsabile economico del Pd – Siamo convinti che la manovra vada approvata nonostante la sua pesantezza. Senza la manovra, nonostante tutto, la situazione sarebbe peggiore». «L’idea di mettere la fiducia sulla manovra costituisce l’ennesimo strappo democratico», secondo Paolo Ferrero (Prc): «Un governo non eletto dal popolo ha firmato in Europa un accordo che trasforma l’Italia in un protettorato tedesco».


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