Abbandonare il tabù della spesa pubblica

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Questa la domanda contenuta in una e-mail del prof. Lo Iacono di Napoli cui rispondo segnalando l’esemplare articolo di Paul Krugman (Repubblica del 3/1/12) in cui il grande economista, riprendendo la nota tesi di Keynes, torna a confermare che «tagliare la spesa pubblica in una economia depressa deprime ancor più l’economia». Cercherò di dedicare all’argomento anche l’odierna rubrica a partire dal contesto europeo. 
La recessione greca, spagnola ed anche quella italiana nascono da una crisi strutturale di competitività . In questi primi 10 anni di euro molti paesi (Italia compresa) hanno visto la loro competitività  rispetto alla Germania ed al resto del mondo erodersi drammaticamente a causa delle mancate riforme che sarebbero state necessarie per fronteggiare il nuovo paradigma della globalizzazione. A fronte della crescita prorompente della domanda asiatica, sono le esportazioni a garantire livelli di vita crescenti ai cittadini, attraverso riforme e sacrifici come quelli affrontati dalla “formica tedesca”, fin dai tempi del cancelliere socialdemocratico, Schroeder. Al contrario da quelli rifiutati da italiani, portoghesi, spagnoli, greci gravati oggi da un deficit della bilancia commerciale, il cui totale è ormai pari al surplus tedesco. 
Cosa fare dunque? La Germania pare suggerire un cammino di deflazione, fatto di riforme ed austerità , che combinino il recupero tramite minori costi ma anche minore domanda. È il paradigma europeo contro il quale si sta battendo Monti in tutti gli ultimi incontri internazionali, un paradigma in cui ci troviamo bloccati e il cui funzionamento perverso aggiunge ad una recessione strutturale una rovinosa politica fatta di scarsa domanda pubblica e alta tassazione. Occorrerebbe elaborare una strategia europea per convincere la Merkel della convenienza tedesca alla salvezza e al rilancio dell’euro, reflazionando l’economia della Repubblica federale e del resto d’Europa, riducendo la tassazione, aumentando la spesa, ed anche promuovendo deficit pubblici. L’aumento della domanda tedesca porterebbe noi italiani fuori dalle secche della recessione, incoraggiando la ripresa delle esportazioni e la riduzione del debito. Per contro il Patto di Unione fiscale dovrebbe essere congegnato in modo da garantire che l’Italia e gli altri “paesi cicala” passino dalle promesse ai fatti in tema di riforme della concorrenza, del lavoro, delle norme di bilancio. Si tratterebbe di un nuovo tipo di piano Marshall tutto interno all’Europa che garantisca la Germania che non stiamo chiedendo altra acqua per una pentola che resta bucata. 
Perché le parole si traducano in fatti ognuno deve dare il suo apporto. L’Italia è in grado di contribuire alla propria crescita riavviando la domanda interna. Di fronte alla stagnazione della domanda delle famiglie e delle imprese e alla reticenza delle banche a riaprire il credito la recessione può essere bloccata se entra in campo la domanda pubblica, superando non solo le indubbie difficoltà  economiche ma anche l’ostracismo ideologico ormai intrinseco ad ogni idea di intervento statale che sarebbe naturalmente foriero di corruzione e di debito. Eppure non è obbligatoriamente così. Non sarebbe foriera di debito una spesa pubblica finanziata con tassazione e dunque in equilibrio di bilancio iniziale (l’Iva, invece di ridurre il debito, può finanziare maggiori appalti; altre fonti possono esser reperite con tagli agli sprechi a cominciare da quelli della politica. A questa voce si aggrega anche quella derivante dalla corruzione, sempre che si voglia combatterla.) È dunque il momento di uno Stato migliore, non di meno Stato. È il momento in cui tecnica e politica possono agire in concordia virtuosa contro la recessione e per un rientro dal debito.


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