Arriva Geithner: vuole lo stop al petrolio iraniano

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Almeno questa è l’agenda di Washington, sopportata con fastidio dalla Cina e non solo. Oggi Geithner vedrà  il premier Wen Jiabao e il vice presidente Xi Jinping. Poi via a Tokyo, dove sarà  ricevuto dal primo ministro Yoshihiko Noda e, domani, dal titolare delle finanze Jun Azumi.
La Repubblica popolare ha fatto precedere l’arrivo dell’inviato di Obama dall’altolà  del portavoce del ministero degli esteri, Liu Weimin: Tehran, in quanto firmataria del Trattato di non proliferazione nucleare, ha diritto all’uso pacifico dell’energia atomica, e «la questione non si risolverà  attraverso le sanzioni» unilaterali, varate al di fuori del Consiglio di sicurezza. 
Anche il Giappone e la Corea del sud, tradizionali pilastri delle alleanze Usa nel Pacifico, rischiano di rimanere vittime della chiusura del mercato Usa – annunciata a capodanno da Obama – nei confronti di quelle istituzioni finanziarie che intrattengano rapporti con la Banca centrale iraniana, attraverso la quale viene venduto l’oro nero di Tehran. 
Secondo quanto riferito dal Financial Times, la JX Nippon Oil & Energy – la principale raffineria giapponese – ha avviato trattative con Riyadh per aumentare le importazioni di greggio dall’Arabia saudita. E la Corea del Sud ha annunciato che acquisterà  meno petrolio dall’Iran, ma ha fatto sapere che la sua diplomazia è impegnata per far sì che questa riduzione sia la minore possibile. 
Tokyo (che assorbe il 18% dell’export di Tehran) e Seoul ricevono entrambi il 10% del proprio fabbisogno di petrolio dall’Iran. La Cina, che ne acquista dall’Iran l’11%, con 600.000 barili al giorno, è il primo importatore dalla Repubblica islamica, che le fornisce il 22% del suo export complessivo. Saranno le scelte di questi paesi più che quelli dalle Ue (18% del greggio di Tehran) a decidere se l’embargo voluto da Washington funzionerà  o si rivelerà  un flop. Per la Cina in teoria, si apre la possibilità  di aggiudicarsi i barili a cui probabilmente rinuncerà  la Ue, più sensibile alle pressioni Usa.
E proprio nel giorno dell’arrivo di Geithner, Pechino ha pubblicato nuovi dati sulla sua economia. Il surplus commerciale nel 2011 è stato il più basso dal 2005: «soltanto» 155 miliardi di dollari, circa 30 miliardi meno che nel 2010. Due le cause: il crollo della domanda di prodotti cinesi dall’Europa e l’aumento delle importazioni delle commodities, il petrolio che alimenta l’industria e un mercato dell’auto in piena espansione e il ferro utilizzato nelle costruzioni. 
Quello che potrebbe sembrare un risultato negativo va letto alla luce dei profondi cambiamenti impressi alla struttura economica dal Partito comunista , che nel Piano quinquennale (2011-2015) prevede di riequilibrare il sistema riducendo la dipendenza dall’export e aumentando i consumi. 
I dati di ieri daranno una mano a resistere al pressing di Washington per un ulteriore apprezzamento dello yuan (+20% in 5 anni): un’istanza forte nel Congresso, dove i parlamentari degli Stati più colpiti dalla crisi fanno campagna elettorale sventolando la bandiera del «made in Usa».


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