Claire Bretecher: “Ho disegnato i miei frustrati perché la realtà  era noiosa”

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PARIGI – La noia. Quella degli altri, la sua. «In questo momento non ho nessuna ispirazione, è tutto così monotono» racconta Claire Bretécher seduta in una poltrona del suo salone. Niente di nuovo. È grazie al senso di tedio dell’esistenza che sono nati tutti i personaggi della celebre disegnatrice, come la principessa ninfomane Cellulite o l’adolescente pestifera Agrippina, con le loro battute fulminanti. «Voglio un uomo, ma senza cervello». «Sono troppo stanca per divorziare». Cinica, impietosa, scorretta. Bretécher esalta la cupa insofferenza, una certa cattiveria tipica della borghesia parigina, alla quale appartiene. Anche lei risponde spesso, con sdegno, «je m’en fous», me ne frego. I trentenni di oggi sarebbero ancora quei Frustrati che lei ha raccontato per anni nelle strisce sul Nouvel Observateur? «Non li conosco, me ne frego. Vedo solo giovani donne che si agitano per far figli e carriera. Mi sembra tutto così faticoso, poco divertente».
Quarantacinque anni di professione (è nata nel 1940), venticinque album, autrice culto definita da Roland Barthes «il miglior sociologo francese», ha svelato la prosopopea della generazione sessantottina, le contraddizioni della liberazione sessuale, i tic delle signore della gauche, gli snobismi degli intellò, il conformismo dell’anticonformismo. Conosciuta in Italia grazie a Linus, poi pubblicata da Bompiani, è stata la prima donna in un universo a lungo esclusivamente maschile. «Non mi ha mai pesato anche se dovrei dire il contrario, conviene sempre passare per martire». Il suo atelier è sul terrazzo, affacciato su tutta Parigi. Abita all’ultimo piano di un parcheggio di Montmartre. Matite, acquerelli. Ha un metodo di lavoro ancora artigianale. «Mi piace la carta, l’inchiostro di China, la grafica, la tipografia di qualità ». Non è attratta neanche dall’animazione, ribalta di molti suoi colleghi. «Devi usare il computer e mi sembra che così i disegni si assomigliano tutti, forse è solo perché sono vecchia». 
Una volta suo figlio cercò di entrare nello studio, lei rispose che stava lavorando. Martin rimase nascosto dietro le finestre, osservandola. «Mamma fuma, mamma scrive, mamma butta il foglio, mamma ricomincia». Sono tre pagine manoscritte che compaiono alla fine del volume Claire Bretécher appena uscito dalle à‰ditions du Chene, compendio alla sua lunga carriera che rivela anche una sua dimensione artistica più intima e meno nota, quella dei disegni e della pittura. «Ho sempre avvertito il bisogno di sperimentare altri formati e tecniche rispetto alle tavole del fumetto» spiega Bretécher, corpo esile, caschetto biondo, occhi azzurri. È ancora bellissima, si narra che due presidenti abbiano tentato, invano, di sedurla con un invito all’Eliseo. 
I quadri seguono un impressionismo classico, il contrario delle vignette, scarne, crude, corrosive. Ha dipinto suo marito, il costituzionalista Guy Carcassonne, suo figlio, i suoi nipoti. «Disegnare i bambini è facile, non hanno il problema di piacersi o di riconoscersi». Nel libro c’è spesso lei, in una serie di autoritratti malinconici e tormentati. «Quando comincio un nuovo album credo di essere un genio, dopo venti pagine mi sento una merda». Tiene tutte le bozze. Pile e pile di fogli accatastati e mai pubblicati. «Un rito scaramantico, forse un gesto di ribellione rispetto a mia madre che mi considerava una nullafacente». 
All’ingresso dell’appartamento c’è una statua di Tintin. Era una ragazzina quando arrivò da Nantes a Parigi, all’inizio degli anni Sessanta, con in borsa i suoi primi schizzi. Incontra allora Goscinny, Uderzo, Peyo. Frequenta la “banda dei belgi”, prima a Tintin e poi a Spirou, le due riviste allora ferocemente rivali. I fumettisti, ricorda, erano tutti poveri, un’avanguardia al confine tra la civiltà  dello scritto e quella, già  dominante, delle immagini. «Lavoravamo come dei matti, Uderzo faceva anche quindici pagine a settimana, con l’aggravante di sentirci dei falliti perché all’epoca il fumetto era veramente di nicchia». Non esistevano ancora le grandi mostre, le aste, le strisce non erano riconosciute come forma d’arte. 
Con la sua rubrica “I Frustrati” ha fotografato dall’interno un’epoca di contraddizioni, quei bourgeois-bohémien perennemente depressi, che «pensano a sinistra e vivono a destra». «Ricordo l’impegno con il Nouvel Observateur come un calvario, un periodo che ho odiato anche se riconosco che è stato quello che mi ha resa famosa». Bretécher arrivava in redazione il lunedì, ventiquattro ore prima di dover consegnare il suo disegno, nervosissima, senza un’idea precisa. «Mi torcevo le dita delle mani, montava l’angoscia. Poi, non so come, riuscivo a fare quella dannata pagina. Un miracolo che si ripeteva ogni settimana». Anche nel linguaggio è stata un’innovatrice. Le frasi sincopate di Agrippina, figlia degenere, sono diventate di uso comune. «C’è stato un periodo in cui tutti parlavano dei giovani con toni meravigliati. Mi sono innervosita e ho fatto un’adolescente veramente odiosa». Agrippina è il suo personaggio che è vissuto più a lungo, l’ultimo album risale a due anni fa. 
Qualcuno ha accusato Bretécher di essere sessista, lei che ha deriso le manie dell’emancipazione femminile ma ha anche fatto di Santa Teresa d’Avila, la mistica carmelitana spagnola, una militante ante litteram del movimento delle donne. «Il fatto è che, anche nel femminismo, ci prendevamo terribilmente sul serio. Da una parte c’era il Bene, dall’altra il Male. Oggi è tutto più sfumato, più vago. Non ci trovo più alcun interesse». Ed eccola quindi in cerca di un’illuminazione, del dettaglio da cui far scaturire un personaggio, un nuovo graffio. La noia, di certo, sarà  buona consigliera.


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