Dall’operaio alla commessa i due milioni di lavoratori con le dimissioni in bianco

Loading

Sono una delle piaghe più sommerse e invisibili del mercato del lavoro in Italia, la clausola nascosta del 15% dei contratti a tempo indeterminato, un ricatto che colpisce due milioni di dipendenti, in gran parte donne. 
Ricorda Fabrizio B., meccanico specializzato di 34 anni, oggi a contratto in una grande acciaieria umbra: «Con un’unica penna ho firmato la mia assunzione e le mie dimissioni, la speranza e la condanna, sapevo che era un ricatto, sapevo che era illegale, ma avevo due figlie piccole, un mutuo, e il bisogno, disperato, di uno stipendio. Era il 2003: cinque anni dopo, quando mi sono opposto a turni di lavoro disumani, il mio principale dopo mesi di mobbing ha tirato fuori la lettera e ci ha messo la data. Sono stato cacciato, ma in realtà  risultavo “dimesso”. E dunque senza possibilità  di oppormi, di avere né disoccupazione né altro… Ho impiegato anni per riprendermi, il mio matrimonio è fallito, ho rischiato di perdere la casa. E oggi ancora ne porto i segni».
Si annida dappertutto il fenomeno delle dimissioni in bianco, rappresenta oltre il 10% di tutte le controversie di lavoro dei patronati Acli, il 5% di quelle degli uffici vertenze della Cisl, spunta come una gramigna cattiva da ogni interstizio produttivo, tra le commesse dei negozi di lusso come tra gli impiegati delle agenzie di servizi, nell’edilizia senza regole che cementifica le nuove periferie, ma anche nelle botteghe artigiane dell’orgoglio made in Italy. E nell’80% dei casi resta un reato impunito e taciuto. Ma che cosa è questa prassi illegale che coinvolge il 60% delle lavoratrici donne e il 40% dei lavoratori maschi, la manodopera operaia, tessile e artigiana, ma si estende anche, e con una percentuale del 25%, al personale impiegatizio di piccole e medie aziende? Come si fa a ricattare così un lavoratore, ma soprattutto una lavoratrice (le donne spesso vengono “dimissionate” non appena tornano dalla maternità ) con una distorsione delle regole tanto evidente che il ministro del Lavoro Fornero, su pressione di diversi gruppi di donne, ha annunciato a breve un provvedimento per rendere impossibili le dimissioni in bianco?
La promessa e l’inganno
«In pratica – spiega Pasquale De Dilectis, direttore provinciale del patronato Acli di Napoli – al momento dell’assunzione le aziende fanno firmare al lavoratore un foglio completamente in bianco, o magari una pagina già  compilata ma senza una data, in cui il neo dipendente presenta le proprie dimissioni. Questa lettera viene custodita dal titolare che così può decidere, in ogni momento, di mandare via quell’operaio senza doverlo licenziare, e dunque mettendosi al riparo da cause e contenziosi…». Perché è difficilissimo, una volta firmata una lettera autografa, dimostrare che si è stati costretti a quel gesto, e spesso patronati e sindacati non possono fare altro che “raccogliere” la storia di quell’uomo o quella donna ricattati e beffati da padroni senza scrupoli. E si può essere “dimissionati” per decine di pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, l’età , i rapporti con il sindacato. O semplicemente, anzi cinicamente, raccontano ancora alle Acli, «per lo scadere dei benefici della legge 407 del 1990, che permette ai datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato di non pagare per 3 anni i contributi al neo-dipendente che viene coperto direttamente dall’Inps». Passati quei mille giorni la lettera salta fuori e il lavoratore diventa carta straccia, avanti il prossimo per poter “rubare” i benefici di legge. 
Cacciate dopo la maternità 
Ottocentomila donne nate dopo il 1973 hanno raccontato all’Istat di essere state licenziate o costrette a dimettersi dopo la maternità . In quel momento strategico in cui, compiuto l’anno del bambino, le donne non sono più protette dalla legge 1204 del 30 dicembre 1971, sulla “Tutela delle lavoratrici madri”, e dunque le aziende sanno che sia le “dimissioni in bianco” sia i licenziamenti diventano meno attaccabili e sanzionabili. «Il dato è davvero critico – commenta Linda Laura Sabbadini, direttore del dipartimento di Statistiche Sociali e Ambientali dell’Istat – perché questa condizione sta addirittura peggiorando tra le donne più giovani». 
«Se penso che in azienda l’abito da sposa me lo sono cucito e ricamato da sola, seta Mikado e fiori di madreperla, e poi la titolare lo ha messo in collezione, ancora mi viene da piangere». Sì, perché Adele Ferri, che oggi ha 30 anni, in quella piccola ditta di alta sartoria nota in tutta la Puglia, aveva cominciato a lavorare a 15 anni, «come succede da noi, a Barletta, mia nonna diceva che avevo le mani d’oro, mi hanno preso come lavorante, nemmeno il corso ho fatto tanto ero brava, ma un contratto vero, anche se a termine, me l’hanno fatto soltanto a 18 anni».
Corre veloce Adele, sacrifica alla “ditta” amici, vacanze e domeniche, ma lo fa con passione, perché, racconta oggi nello studio del suo avvocato, «sapevo che mi stavo creando un futuro, un posto di lavoro, intorno a me c’erano soltanto tanti giovani disoccupati, mi sentivo quasi fortunata». Accade però che a 22 anni Adele si fidanza, e la titolare a sorpresa la convoca. «Mi disse che voleva farmi un regalo, ora che stavo per formarmi una famiglia, io che per lei, così ripeteva, ero come una figlia: un contratto a tempo indeterminato, ma che dovevo anche firmare una lettera in cui mi dimettevo, ma soltanto così, per sicurezza, l’avevano già  fatto tutte le altre, e figuriamoci se si sarebbe mai privata di una come me. Accettai, delusa, ma ancora mi fidavo». A 23 anni Adele si sposa, a 25 resta incinta. «Ho lavorato fino all’ottavo mese, quasi non riuscivo più nemmeno a piegarmi per provare i vestiti alle clienti, ero già  in maternità  e ancora mi chiamavano». Nasce Alex, e Adele cambia. Prende l’aspettativa. Torna in ditta ma non ce la fa più. Chiede di non fare gli straordinari, esige che il contratto di lavoro venga rispettato, chiama il sindacato. «Era febbraio, erano i giorni di Carnevale, e la titolare tirò fuori quella lettera: da domani tu vai a casa, non ti riconosco più, non voglio guai qui… Nove anni sepolti in un attimo e oltretutto con la mia firma… Ho avuto la depressione, ma poi sono riuscita a risollevarmi e sto iniziando una causa, nell’attesa di aprire un atelier tutto mio».
La legge cancellata 
Contro la piaga endemica delle dimissioni in bianco, che, stima Luana Del Bino dell’ufficio vertenze della Cgil di Pistoia «riguarda il 15% di tutti i contratti a tempo indeterminato», quindi circa due milioni di lavoratori, il governo Prodi aveva varato una legge illuminata, la numero 188 del 17 ottobre 2007. Titti Di Salvo, oggi nell’ufficio di presidenza di Sel, era stata la relatrice di quella legge, fatta di un solo, ma essenziale articolo. «Ciò che veniva imposto è che le dimissioni fossero presentate su moduli identificati da codici numerici progressivi e validi non oltre 15 giorni dalla data emissione. Per evitare appunto la data “in bianco”. Purtroppo la legge entrò in vigore soltanto all’inizio del 2008, poco prima che si sciogliessero le camere. Eppure l’aver semplicemente annunciato sanzioni e provvedimenti contro la prassi delle dimissioni in bianco aveva già  avuto un effetto deterrente. Ma è stato solo un momento, perché il primo provvedimento del governo Berlusconi – dice con amarezza Titti Di Salvo – è stata proprio la cancellazione di quella legge, ad opera del ministro Sacconi». 
Un colpo di spugna che unito alla crisi, ricorda Amedeo Contili delle Acli di Terni, ha inabissato il fenomeno ancor di più, «peggiorando le condizioni delle donne dopo la maternità , degli immigrati e di chi lavora nell’edilizia, con l’aggravante che questi lavoratori non possono accedere né alla indennità  di disoccupazione, né ad altri ammortizzatori sociali». Ma che cosa si può fare allora per difendersi da questo sopruso, dal ricatto di quelle lettere firmate per bisogno e per disperazione, nell’attesa che il ministro Fornero davvero intervenga contro questa piaga?
Gli 007 della Cgil toscana
All’ufficio vertenze della Cgil di Pistoia, che già  nel 2007 raccolse i dati nazionali del fenomeno, alle dimissioni in bianco hanno dichiarato guerra. Vincendo decine di cause contro aziende fuorilegge. «Attraverso un tam tam capillare sui giornali locali, nelle fabbriche, nelle radio, ovunque, cerchiamo di informare i lavoratori, e li spingiamo comunque a venire da noi nonostante abbiano firmato quelle lettere al momento dell’assunzione. Quello che suggeriamo loro – spiega Luana Del Bino – è di inviare con una raccomandata postale una dichiarazione autografa all’ufficio vertenze, in cui denunciano di essere stati costretti a firmare un foglio di dimissioni in bianco, in quel giorno e in quell’azienda. Noi non apriamo queste buste, le mettiamo in cassaforte, ma quando il titolare di un’impresa decide effettivamente di “dimissionare” un proprio dipendente, noi ci presentiamo con quella lettera che abbiamo custodito per anni… E ci vuole poco ai consulenti del lavoro per capire che l’azienda è in torto e il reato è la truffa. Siamo anche arrivati alle perizie calligrafiche. E molti lavoratori hanno così riavuto il loro posto. Ma è sempre e soltanto una goccia nel mare».
I ricattati del Sud
Non gli era sembrato vero ad Antonio P., 45 anni e 4 figli, una casetta condonata in un piccolo comune del Casertano, vent’anni di matrimonio con Anna, di ricevere quella proposta di lavoro a tempo indeterminato. È un buon manovale Antonio, lo conoscono tutti, «per campare la famiglia onestamente non mi sono mai tirato indietro, sempre in lista al collocamento, ho sempre fatto di tutto, i miei figli studiano, sono bravi ragazzi, ma mai nessuno che mi avesse messo in regola, solo impiego a giornata, contratti a termine e spesso scoprivo che erano finti…». Ma questa volta è diverso. Chi lo chiama è il titolare di una nota ditta di manutenzione stabili. «Antò, mi hanno affidato un grosso lavoro di pulizie, questa volta ti assumo». Antonio si fida, è quasi felice, da mesi non guadagna, l’edilizia è in crisi, i cantieri fermi. O sequestrati. Il giorno dell’assunzione però il titolare svela le carte. «Antò, devi firmare anche le dimissioni, senza data, perché quando finiscono i contributi dello Stato, te ne devi andare, mi dispiace, ma io non ce la faccio, però ti conviene, almeno per un po’ guadagni…». Antonio è confuso, deluso, prende tempo, torna al collocamento, parla con i volontari della parrocchia che aiutano i disoccupati a districarsi tra le norme e i contratti.
«Mi consigliarono di pensarci bene, dicendomi sì che era un ricatto schifoso, ma anche che così potevo portare i soldi a casa, con 4 figli non si scherza, finisce che prima poi devi chiedere un favore a qualcuno e allora sì che è un macello… Quella sera ho discusso con Anna, era stanca, sfinita, tutto il giorno a correre per fare le ore nelle case, negli uffici. Abbiamo capito di non avere scelta, meglio questo che la fame o la delinquenza: ho firmato quella lettera scritta al computer e su cui prima o poi il mio principale metterà  la data. I mesi di contributi agevolati che lo Stato dà  per il mio contratto scadono a giugno: dopo c’è il nulla… No, anzi, c’è la comunione di mia figlia Laura. C’è il vestito, il pranzo, i confetti. Magari trovo un prestito…» .


Related Articles

Più entrate che tagli: 7 miliardi La scure sulle detrazioni dal 2016

Loading

 Palazzo Chigi apre alle modifiche della legge di Stabilità. Alfano: non è il Vangelo

Il mercato autogestito batte la crisi

Loading

Distribuzione di generi alimentari nei quartieri, allacci illegali alla rete elettrica, assedio alle agenzie del fisco. La Grecia risponde per le rime alle politiche della troika

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment