Fasti e segreti tra i marmi della Farnesina dove gli scandali rimbalzano e svaniscono

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A dispetto dei marmi che la fanno risaltare nel suo gelido e simmetrico nitore, la Farnesina è in realtà  un palazzo di gomma, nel senso che gli scandali le rimbalzano addosso, e una volta rimbalzati su quei periferici travertini si perdono nel nulla e poi nessuno se ne ricorda più.
E’ storia e memoria ogni volta messa a dura prova: petrolio libico, gas tunisino, stecche saudite, traffico d’armi per ogni dove, con la gentile partecipazione dei servizi segreti; e fra pescherecci somali o metropolitane in Perù, compravendita di visti a Tirana come pure ospedali tarocchi in Zaire, non c’è storiaccia che lasci qualche segno dalle parti del ministero degli Affari Esteri; e nulla mai riesce davvero a scalfire la tradizione di quel luogo necessariamente fantastico, fonte inesauribile di leggende torbide e sfarzose sul ceto più aristocratico della pubblica amministrazione, dalle clientele pseudointellettuali degli istituti italiani all’estero all’indicibile minutaglia degli ambasciatori ubriachi, dei consoli menacciuti, dei primi segretari trafficanti, dei diplomatici stranieri viziosi, e giù, giù fino alle tartine avariate nei ricevimenti.
Ogni branca del potere ha i suoi fasti, le sue magagne, ma soprattutto i suoi dispositivi di difesa. Il caso di Vattani junior rientra in questo superiore sistema di gelosa e dissimulata imperturbabilità  rispetto ai casi scabrosi della vita, pubblica e privata – al giorno d’oggi il confine essendo divenuto impossibile da stabilire. Nel gigantesco parallelepipedo della Farnesina, non per caso denominato «la Tomba del Faraone», nove piani, 1300 stanze, con la Reggia di Caserta uno degli edifici più grandi d’Italia, l’auto-protezione sembra da sempre efficacissima; e in fondo ha funzionato anche per Vattani senior, papà  Umberto, due volte Segretario Generale e poi nominato presidente riconfermato dell’Ice in presenza di vicende poco edificanti, un bel po’ di soldi spesi per telefonate non esattamente di servizio, un giudizio severo della magistratura e più in generale un oceano per nulla pacifico di chiacchiere.
Ma è in quel modo che va lì dentro, tra i lunghissimi corridoi, gli scaloni lucidi, i montacarichi ansiogeni e l’inaccessibile biblioteca. Con qualche azzardo interpretativo si può pensare che l’andazzo sia anche il frutto di uno scambio con il potere politico. De Michelis, a suo tempo, ebbe un paio di segretari agli arresti, o forse erano tre, per l’inchiesta monstre sulla cooperazione, finita con tanti assolti e prescritti. Ma in fondo fece a tempo ad assaporare le preziose informazioni che con servile lusinga i diplomatici gli riservavano sulle discoteche di mezzo mondo.
Da un po’ di tempo, oltretutto, i ministri sono quelli che sono: Berlusconi spiegava agli ambasciatori che non dovevano indossare il panciotto; Fini convocava alla Farnesina le riunioni di An e se il suo portavoce, di cui è rimasto agli atti il sublime dilemma «Chi ci trombiamo oggi?», si faceva recare nel marmoreo sepolcro l’oggetto dei suoi desideri, quello già  più professionale di Frattini dovette intervenire con una nota sulla fine dell’amore tra il ministro e la fidanzata, l’indimenticabile Chantal. Poi per la verità  alla Farnesina arrivò in dote anche Valterino Lavitola: e faceva la posta nell’anticamera del responsabile della politica estera, per via di un affare albanese, o lo accompagnava a Panama, come da foto.
E così, dati anche i luminosi esempi, succede che le commissioni disciplinari per i diplomatici lascino il tempo che trovano. Narra la generosa leggenda del palazzo di gomma che Fanfani – che era Fanfani e lì poi si formò un corpo di feroci esecutori detti «Mau Mau» – appena arrivato si mise in testa di far arrivare in orario gli ambasciatori e quindi ordinò il sequestro delle chiavi delle loro stanze, che volle tenere sulla sua scrivania come un trofeo di guerra. Al che, verso mezzogiorno, con aria annoiata un diplomatico si rivolse ai commessi: «Bene, me le farete consegnare a casa».


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