La corsa ad abbracciare Nick E riappare l’«asse del Nord»

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«Tanto vale che mettano una porta girevole qui a Montecitorio, uno di noi torna da Poggioreale e l’altro ci rientra» paventava Melania Rizzoli. E il socialista Lucio Barani, l’ultima raffica di Hammamet: «Verranno a prenderci casa per casa!». Solo Denis Verdini ostentava sicurezza: «I numeri ci sono sempre stati, e ci saranno».
Quando Cosentino evita Poggioreale e pure con buon margine, la curva del Pdl esplode in un’allegria di naufraghi, un’euforia di scampati. Osvaldo Napoli è il primo a guadagnare lo scranno del salvato e a stringerlo nell’abbraccio, seguono Nunzia De Girolamo, la Prestigiacomo, Manuela Repetti, Barbara Mannucci. La Mussolini quasi lo fa precipitare nella fila di sotto. Ecco Papa, che ha raccontato a tutti le sue prigioni — «ne avrà  parlato a duecento colleghi» valuta Crosetto — e assicura di aver mietuto voti di solidarietà  castale un po’ ovunque. Stracquadanio: «Finalmente il Parlamento ha tirato fuori le palle!». Poi sfilano i peones a baciare «Nick» sulle guance. Berlusconi applaude ma resta al suo posto, meglio evitare la photo opportunity. Così i deputati, congratulato Cosentino, si mettono in coda dal capo. Verdini gli fa un cenno d’intesa: cosa ti avevo detto?
Maroni invece va via a capo chino. Ha votato sì in modo palese, ha perso. In mattinata Bossi l’ha aggredito e preso a male parole. Gli rimprovera di aver tramato contro il governo Berlusconi, sollevato ad arte la questione del tesoro della Lega finito in Tanzania, condannato Cosentino anzitempo per spezzare definitivamente l’alleanza con Berlusconi. Ora è chiaro che l’asse del Nord rimane integro. E che, fino a quando Bossi avrà  un filo di fiato, resterà  il capo della Lega: i deputati, compresi molti «maroniti», non se la sentono di votargli contro; adesso si riapre lo scontro, per la guida del gruppo alla Camera e per la successione, che la famiglia Bossi vorrebbe riservare a Renzo. Maroni insiste: «Secondo me, dei nostri hanno votato per Cosentino appena in quindici». E gli altri voti? «Udc e Pd». Lei cosa farà ? «Sono sicuro solo di quello che non farò. Non uscirò mai dalla Lega, non farò un altro partito. Ripeto ciò che dissi il 3 novembre 1994, a Genova anche allora sotto l’alluvione, prima di lasciare anche allora il Viminale: “Sono nato con la Lega, morirò con la Lega”». I berlusconiani si congratulano l’un l’altro: escono rafforzati, salvano l’alleanza con Bossi, ribadiscono di poter abbattere il governo Monti in qualsiasi momento. Poi però non ne trovi uno che dica la stessa cosa. Si va dalla Santanché, che dà  ai tecnici due mesi di vita, a Paniz, certo che si arrivi al 2013. Il vicecapogruppo Maurizio Berruti ha un sorriso incredulo tipo popolana appena uscita dalla sala parto: «Io non ci speravo per niente!». E in effetti la decina di assenze nel Pdl, da Tremonti in giù, lasciava presagire una sconfitta. «È del mio partito che non mi fido, è il mio partito che stava per impallinarmi» dice Milanese, l’altro campano sfuggito al carcere. «Io mi sono letto le carte, e contro Cosentino non c’è niente! Niente!» assicura Brunetta. «Noi le carte non dobbiamo neanche leggerle — interviene La Russa —, l’arresto dei parlamentari non si concede mai! Solo in caso di reati di sangue». Reati di sangue? «Sì. Il comunista Moranino, noto pluriomicida. E il nostro Abatangelo, che però era innocente, gli avevano nascosto le armi sul terrazzo…».
In aula, Cosentino si sistema alle spalle dei futuristi e del nemico Bocchino. Il voto slitta causa commemorazione di Tremaglia, «iterum rudit leo, ancora ruggisce il leone» chiude Menia citando il motto del battaglione San Marco al tempo di Salò; «Nick» si strofina le mani, teso, inquieto. Va a baciarlo sulle guance Cicchitto, gli si siede accanto Scajola a fargli un po’ di compagnia. Il dibattito riesce surreale. I leader tacciono, i peones si scatenano. «Io non sono Emile Zola, e Cosentino non è Auguste Dreyfus…» declama D’Anna con accento franco-casertano (gli stenografi della Camera correggeranno pietosamente Auguste in Alfred). Mantini dell’Udc: «Vorrei far mio il motto di san Bonaventura, iustitia silentio nutritur…». Barani cita Brecht. Deserti i banchi del governo, i professori mandano a dire: fatti vostri.
Acrobazie linguistiche. Il futurista Lo Presti, relatore per il no all’arresto quando la procura di Napoli l’aveva chiesto per la prima volta, ora spiega perché voterà  sì. Il leghista Paolini, che il giorno prima in giunta per le autorizzazioni ha votato contro Cosentino, ora ne traccia il martirologio, lo accosta a Enzo Tortora e a Strauss-Kahn, a Mastella e a Tabacci «perseguitati innocenti», porta come argomento risolutivo il fatto che Saviano in «Gomorra» non lo nomina mai, cita il Bill of Rights del 1689 e la sacralità  del parlamentare, chiude ricordando che la linea della Lega è per il sì ma la coscienza è libera e lui palesemente voterà  no. Grandi applausi dal Pdl: la vecchia coalizione di governo è risorta.
Berlusconi arriva all’ultimo momento, Bossi neppure vota. Però sono loro i vincitori di giornata. A completare il successo, la notizia che la Consulta ha bocciato i referendum elettorali: ora cambiare il porcellum sarà  durissima, e in Parlamento i capi riporteranno i fidati. Cicchitto: «A salvare Cosentino ci ha aiutato più il Pd dell’Udc». Crosetto: «I garantisti ci sono in ogni partito. E Papa è stato decisivo, ha toccato i loro cuori. Due democratici sono venuti a dirmi che si sarebbero espressi contro l’arresto». La Santanché: «Questi sono numeri da ritorno del governo Berlusconi!». Verdini, ammiccante: «Ma noi i numeri li abbiamo sempre avuti…». Fuori, la società  civile reagisce. Due rumorosi capannelli contestano i deputati. Uno — «Assassini!» — contro la vivisezione, l’altro — «con il nostro nero vi abbiamo sfamati per 40 anni» — in difesa dell’ippica e delle scommesse.


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VOTI A PERDERE

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Il più sguaiato dei tribuni e il più felpato degli editorialisti di questi tempi hanno una cosa in comune. Si lamentano che i politici, tutti, non lavorano abbastanza. Bene. Per una volta possono darsi pace, dando uno sguardo ai calendari della camera e del senato. Stanno lavorando. Per la precisione stanno votando a testa bassa un decreto via l’altro, una fiducia e un’altra ancora. Questo è il «lavoro» che è ridotto a fare il parlamento, e dovrà  farlo per tutto luglio e anche agosto. Il presidente della Repubblica che con altri governi tuonava contro l’eccesso dei decreti e delle fiducie e che, con i tecnici già  in sella, aveva promesso «un vaglio rigoroso», non interviene. Anzi, quando interviene lo fa per rimproverare il parlamento e respingere ogni critica al governo.

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