Nel futuro degli ammortizzatori sociali mai più steccati tra piccole e grandi imprese

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Un gigantesco air bag sociale, studiato nel corso dei decenni per attutire le crisi cicliche dell’economia italiana. Un meccanismo che costa ogni anno circa 30 miliardi, in gran parte pagati con fondi messi a disposizione dalle imprese e dai lavoratori. Una quota ulteriore, detta «in deroga» perché concessa oltre tutti i limiti di durata previsti per ciascun ammortizzatore, è invece pagata direttamente dallo Stato. Eppure, senza gli ammortizzatori sociali, non solo chi perde il lavoro avrebbe di fronte immediatamente lo spettro della povertà  (come accade, ad esempio, in Usa), ma una parte stessa del sistema economico entrerebbe in crisi. Perché quei 30 miliardi diventano comunque una parte del Pil nei momenti di difficoltà . La prima cassa venne istituita nel 1946 dal decreto sulla ristrutturazione. Era un sussidio per i dipendenti delle fabbriche bombardate durante il conflitto. Oggi tutti concordano sul fatto che il sistema della cassa e della mobilità  vada aggiornato. Soprattutto, è necessario che sia estendibile a tutti. Nelle piccole imprese, ad esempio, è possibile applicare la cassa ordinaria ma non quella straordinaria. Nell’ottobre scorso la Cgil ha presentato una proposta di riforma. La filosofia è quella auspicata da molti: «Passare a un sistema di ammortizzatori uguale per tutti», dice Claudio Treves, responsabile lavoro di corso d’Italia. Naturalmente tutti dovranno contribuire a finanziare il sistema. La proposta prevede anche di riformare l’indennità  di disoccupazione. A regime il pacchetto aumenterebbe il costo complessivo degli ammortizzatori da 30 a 35 miliardi.


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