Nell’inferno dell’Esma

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BUENOS AIRES – Un cenno con la mano e lo sguardo impenetrabile indica un angolo: «In questo punto esatto, incappucciato notte e giorno, catene ai piedi e braccia dietro la schiena, sono stato segregato per circa quattro mesi». Unico trasferimento contemplato: dalla capucheta, il lugubre sottotetto dove i sequestrati erano ammassati ottanta alla volta, al seminterrato, tra i principali luoghi di tortura dell’Esma. Il più grande centro clandestino durante la dittatura militare argentina (1976-1983), l’ex Escuela de Mecanica de la Armada dal 2004 è Museo della Memoria e Centro culturale contro il terrorismo di Stato. A raccontare la tragica esperienza, Carlos Munoz, recluso clandestinamente dal 21 novembre 1978 all’11 febbraio 1980. «Ricordo due particolari agghiaccianti varcata la soglia del grande scantinato: uno striscione con su scritto “La via della felicità ” e le radio degli aguzzini, costantemente accese ad un volume altissimo per coprire le grida insopportabili dei seviziati». Prelevato in piena notte da quattro uomini armati, venne sequestrato con l’ex moglie e il figlio di appena 3 mesi. Su di lui, come sui cinque mila desaparecidos accertati passati attraverso l’Esma prima di scomparire, pratiche di tortura e violenze inimmaginabili: la più comune la picana, un pungolo elettrico originariamente usato per controllare il bestiame in grado di scaricare impulsi dai 6 mila ai 15 mila volt. «Quando il cuore rischiava di cedere interveniva un dottore che ci tranquillizzava – spiega Munoz, internato n°261 – per poi dare l’ordine quando ricominciare e nel modo opportuno».
A Carlos Munoz abbiamo chiesto di commentare le recenti foto inedite desecretate dalla Confederazione interamericana per i diritti umani (Cidh) scattate sulle coste uruguagie dove molti corpi raffiorarono dalle acque del Rio della Plata, il fiume che divide Argentina e Uruguay. Immagini raccapriccianti di cadaveri in avanzato stato di decomposizione, legati mani e piedi con lacci e corde per tapparelle. «Un nostro compagno di 14 anni fu rinvenuto in quelle spiagge, queste foto sono l’ennesima prova di quello che già  era chiaro a tutti – sottolinea Munoz – i militari argentini in quegli anni si giustificavano affermando che quei corpi erano prigionieri di guerra lanciati in mare da imbarcazioni straniere». Si trattava in realtà  delle vittime dei cosiddetti “voli della morte”, persone dapprima sequestrate e torturate nei centri clandestini – se ne contarono più di 350 in tutta l’Argentina – dopodichè narcotizzate con il pentothal e in uno stato di semi incoscienza gettati in mare da aerei militari in volo. Una pratica a cui nessun ufficiale poteva sottrarsi nel quadro della Guerra Sucia (la guerra sporca) volta a reprimere l’attivismo politico dell’Argentina negli anni ’70. Una politica di persecuzione e sterminio della dissidenza avallata dagli Stati Uniti in tutto il continente sudamericano (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay) attraverso il celeberrimo «piano condor». 
Carlos Munoz ripercorre il proprio drammatico tragitto interno all’Esma. Varcato l’ingresso principale di questo centro militare che consta in ben 35 edifici, Munoz si ferma concentrandosi su una torretta militare: «Tutti i testimoni ricordano una brusca frenata – e indicando un solco orizzontale lungo l’asfalto aggiunge – e subito dopo una pesante catena da nave rimossa per permettere il passaggio al camion o alle auto rigorosamente civili». Situato in una zona particolarmente agevole per raggiungere il centro della Capital, i sequestratori si fermavano nel cortile del Casino de Officiales. Sede di copertura del Grupo de Tareas 3.3.2 (GT3.3.2), cruento e implacabile nucleo creato nel 1976 dall’Ammiraglio Emilio Massera che risiedeva insieme ai membri del gruppo (gli Jorges) con la propria famiglia nella medesima struttura di internamento. «Alla vista di noi incappucciati – ricorda Munoz – la figlia di 8 anni dell’Ammiraglio Massera parlava alle compagne di scuola di “sovversivi destinati al recupero”». Giunti all’ultimo piano, Munoz mostra la capucheta: «Da un lato del solaio c’eravamo noi detenuti – descrive Munoz, uno dei testimoni chiave della ricostruzione storica contemporanea – dall’altro i bagni e dal lato opposto il deposito per tutto ciò che ci rubavano: elettrodomestici, vestiti, mobili, tutto». Delle piccole pareti in legno suddividevano lo spazio tra gruppi di persone. Uomini e donne divisi. Chi proveniva da famiglie più importanti e benestanti aveva uno spazio proprio, con un filo di luce. Altrimenti vetri oscurati e buio insostenibile. Vietato parlare. «Solo quando trovavi una guardia più comprensiva potevi scambiare qualche parola, ma era rarissimo». All’improvviso i prelevamenti: «Ci trascinavano giù per le scale incatenati, i segni sul marmo sono ancora intatti». Particolare attenzione per le donne in gravidanza che godevano di un bagno attrezzato: «In una visione prettamente nazista consideravano i figli dei reclusi particolarmente adatti all’adozione: erano bianchi, sani e intelligenti». Risultano infatti più di cinquecento infatti i figli di desaparecidos affidati alle famiglie di militari o affini che non potevano generare prole. Solo un quinto di questi ha potuto riabbracciare i veri genitori biologici. «Mio figlio e mia ex moglie furono fortunosamente liberate quando scelsi di cooperare: scoprirono presto che ero un grafico dotato e mi misero a disposizione del reparto falsificazione documenti». Carlos Munoz produsse passaporti, patenti, tessere di polizia e dei servizi segreti. Denaro e persino atti privati con i quali i detenuti cedevano le loro proprietà  a prezzi stracciati. «Lavorare era un modo per sopravvivere all’orrore, anche se le urla straziate facevano da contorno a tutte le mie quindici ore lavorative». Per chi scampava alla morte, c’era infatti la schiavitù nei reparti dell’intelligence. Victor Basterra, un altro detenuto chiave nella vicenda Esma, produsse microfilm per ogni detenuto contribuendo in modo fondamentale alla ricostruzione e all’individuazione dei colpevoli. E non solo. Lavorò ai passaporti falsi persino di Licio Gelli, il gran maestro della P2, che ha giurato di aver visto in più di un’occasione all’interno dell’Esma.
Il 24 marzo del 2004 l’ex presidente Nestor Kirchner annunciò il sequestro dell’Esma alla marina militare argentina per creare uno dei più importanti Musei della Memoria che la storia contemporanea conosca. Un atto di portata storica come le sentenze che nell’intero arco del 2011 hanno condannato all’ergastolo decine di militari della dittatura per crimini contro l’umanità . L’ultima, del 28 novembre scorso, ha siglato il carcere a vita per dodici militari accusati delle torture inflitte nell’ex Esma. Stesso destino per Eduardo Cabanillas, generale in pensione responsabile del centro clandestino del garage «Automores Orletti», per l’ex presidente Reynaldo Bignone e altri otto militari in servizio nel 1976. Per i trenta mila desaparecidos e per la madri di Plaza de Mayo sembra pertanto giunta l’ora della giustizia. Tanto che Amnesty International ha incluso la storica battaglia per i desaparecidos tra le cinque vittorie dei diritti umani nel 2011.


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