Patto per Rafforzare l’Unione cosa Dirà  il Nuovo Trattato

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BRUXELLES — Il testo sulla nuova «unione economica rafforzata» comincia a prendere corpo. Ma restano molti «problemi aperti» sul taccuino dei 26 rappresentanti dei Paesi Ue, degli esperti della Commissione e dei tre delegati dell’Europarlamento che si sono riuniti ieri a Bruxelles. Tra gli appunti dell’ambasciatore italiano Fernando Nello Feroci spicca «il segno più» alla voce «debito»: «La riunione è andata bene, siamo vicini al nostro obiettivo di armonizzare le norme sul meccanismo di abbattimento del debito con la legislazione europea. Ma c’è ancora molto da fare».
La Germania, attesa al ruolo di protagonista, ha preferito mantenere, questa volta, una posizione più defilata. Il rappresentante tedesco ha però ricordato che il Paese non rinuncia a un emendamento piuttosto indigesto: collegare la partenza del fondo monetario all’europea (Esm, «European stability mechanism») all’approvazione delle norme più stringenti sul bilancio. «Ne parleremo ancora», ha detto. Ora il calendario si accorcia: un altro incontro «tecnico» è fissato per il 12 gennaio; poi ci sarà  la riunione dei ministri finanziari il 23 (Ecofin) e, infine, il Consiglio europeo (Capi di Stato e di governo) il 30 gennaio.
Debito: risultato parziale
L’articolo 4 sembra scritto apposta per l’Italia: il Paese che ha un debito superiore al parametro del 60% (fissato dal Trattato di Maastricht) deve abbattere di un ventesimo, ogni anno, l’extra-stock. Applicato ai nostri conti pubblici, l’effetto sarebbe semplicemente letale: manovre da 40-45 miliardi all’anno solo per mettersi al passo. Come dire: il governo potrebbe consegnare le chiavi della politica economica direttamente a Bruxelles. L’esecutivo guidato da Mario Monti ha presentato un emendamento per attenuarne l’impatto, chiedendo di inserire nel nuovo accordo le «attenuanti» previste nel cosiddetto «Six Pack», la normativa Ue su Patto di stabilità  e dintorni in vigore dal 13 dicembre scorso. Richiesta appoggiata anche dall’Europarlamento, ma recepita solo in parte nel corso della riunione. La bozza contiene un riferimento al comma che di fatto rimanda al 2014 l’applicazione del vincolo («la valutazione dei conti va fatta nell’arco di tre anni) e che contempla l’impatto del ciclo economico sull’esposizione finanziaria (una recessione prolungata è chiaro che contribuisce ad aumentare il debito). Contrariamente alle indiscrezioni pubblicate, non sono, invece, citati «gli altri fattori rilevanti», vale a dire la sostenibilità  del comparto pensioni, l’impatto delle riforme strutturali e così via. Un punto molto importante per il governo Monti che ha già  cominciato a seguire questa strada per recuperare credibilità  sui mercati e in Europa. Senza l’appiglio giuridico del nuovo Trattato, il premier rischia di volteggiare tra le riforme di sistema come un trapezista senza un compagno in attesa, pronto ad afferrarlo. 
Deficit da rivedere 
E’ il punto cardine del «fiscal compact», quello voluto con maggiore determinazione dalla Germania, appoggiata da Olanda, Austria, Finlandia e altri Paesi con i conti in ordine. La filosofia di fondo si potrebbe riassumere con lo slogan «deficit zero». Gli Stati non solo devono tendere a questo obiettivo, con un margine di tolleranza massimo dello 0,5% del Pil, ma si impegnano a scolpirlo nelle proprie Costituzioni. Non basta. Sempre nelle leggi fondamentali deve essere introdotto un dispositivo di aggiustamento automatico dei conti, in modo da riportare il valore verso lo zero. La regola, però, contraddice la versione del «Six Pack», dove si concedono margini più ampi allo scostamento dallo zero: la forcella in estensione può arrivare fino all’1% del Pil. L’incongruenza è stata sollevata ieri con insistenza dai rappresentanti dell’Europarlamento. «Non c’è nesso tra lo 0,5% previsto nella bozza che abbiamo discusso e le norme di cui già  disponiamo e la nostra obiezione è stata condivisa da molti Paesi», dice Roberto Gualtieri (gruppo Socialisti e democratici), uno dei tre parlamentari che conducono la trattativa. Le obiezioni dell’Europarlamento sono state appoggiate, tra gli altri, da Portogallo, Belgio, Italia, Danimarca, Olanda e Polonia. La Germania, forse per una scelta tattica, curiosamente non è intervenuta. Qualcuno, però, ha fatto notare che l’0,5% è una cifra che fa parte dell’accordo del 9 dicembre firmato dai 26 Paesi Ue (tutti tranne il Regno Unito). 
La Corte non è invitata 
Anche il ruolo della Corte europea sta diventando una trappola. Nell’articolo 8 esaminato ieri è scritto che ogni Paese può citare un partner inadempiente davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. In altri termini, e gli esempi non sono casuali, il governo tedesco potrebbe «fare causa» a quello italiano se non dovesse procedere alla riduzione del debito (sia pure con tutti gli ammortizzatori del caso) o a quello spagnolo se non dovesse riportare il deficit, nei tempi concordati, verso lo zero. Ancora una volta il Parlamento europeo ha sollevato una questione di principio, che ha un’evidente base politica. Come può un organismo incardinato nei Trattati europei intervenire all’interno di una cornice giuridica che non ne fa parte? Effettivamente siamo di fronte a una sorta di aporia legale, un paradosso che sembra uscito dal romanzo «Comma 22» di Joseph Heller (comma 21: «solo un pazzo può chiedere il congedo dal fronte»; comma 22: «chi chiede il congedo non è pazzo»). L’ambasciatore Nelli Feroci fa notare che, nell’accordo del 9 dicembre, era previsto l’intervento della Corte europea solo nel caso in cui un Paese non dovesse inserire nella propria Costituzione la «regola d’oro» del deficit zero. Alla fine su questo punto, tutti, tranne il rappresentante olandese, all’origine di questa formula, hanno riconosciuto che andrà  ripensato l’intero articolo.
Il caso Eurobond 
Il dibattito è scivolato più veloce su altri aspetti del nuovo patto. Si dà  ormai per acquisita la necessità  di un coordinamento nella gestione del debito, o meglio nell’emissione dei titoli di Stato. Nessun accenno agli Eurobond. E non ci sarà , per il semplice motivo che questo strumento invocato da molti non fa parte dell’intesa maturata al vertice di Bruxelles tra i 26 Paesi. Un po’ tutti, invece, hanno chiesto di rafforzare la parte su crescita e lavoro, ma per il momento non sono emerse proposte concrete. Dibattito più acceso, invece, sulla definizione stessa del documento: dovrà  essere chiamato «Accordo» o «Trattato»? Nella bozza di ingresso il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy avevano inserito la parola «Trattato». Ma nella riunione solo Germania e Francia hanno difeso questa scelta. Tutti gli altri (compresi Europarlamento e Commissione) preferiscono «accordo». E, ancora una volta, dietro la disputa nominalistica c’è sostanza politica. Germania e Francia (meno convinta) vogliono avere al più presto un testo vincolante, efficace e giuridicamente autosufficiente. Gli altri (Italia, Belgio, Spagna, Grecia, Irlanda, Polonia, oltre alle istituzioni Ue) spingono per ricondurre anche questo «accordo» nell’alveo del Trattato di Lisbona e dei regolamenti europei, con tutte le garanzie che ne conseguono. Anche di questo se ne riparlerà  la settimana prossima.


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